La stirpe dei Sambiasi, attestata come Sancto Blasio sin dal sec. XIII, fu tra le più antiche, nobili e benemerite di Nardò.
Eccelse per la costruzione di chiese, la fondazione di benefici ecclesiastici, opere pie e caritative, tra cui spicca quella di Pippa Sambiasi, che il 4 ottobre 1433 donò alla chiesa di Nardò i grandi feudi di Fango e Paduli.
Gli ultimi rappresentanti vissero in città fino alla metà del secolo XVIII, per poi estinguersi, sopravvivendo il ramo leccese.
Utile, ai fini di questa occasione che vorrebbe la soppressione dell’ospedale neritino, soffermarsi sulle volontà testamentarie di due fratelli, Fabrizio e Giuseppe Oronzo, dei quali il primo coniugato con la nobile Glorizia de Prezzo ed il secondo chierico.
Il 6 maggio 1741, dopo mature considerazioni, i tre benemeriti testarono di fronte al notaio Nicola Bona di Nardò, lasciando precise disposizioni da rendersi pubbliche dopo la morte del primo di essi. Nel 1742 e nel 1743 morirono Fabrizio e sua moglie, restando Giuseppe Oronzo, che pur avendo soddisfatto le parti essenziali del testamento, il 12 maggio 1744 lo fece aprire dal notaio Felice Massa.
Vi si nominava erede universale il vescovo pro tempore di Nardò che, fatto redigere da un notaio l’inventario di tutti i beni mobili ed immobili, gli ori, le argenterie, il bestiame, le vettovaglie, doveva devolvere le rendite, al netto delle spese, per un terzo in celebrazioni di Messe, per l’altro in assistenza medica a domicilio, cure e medicinali ad ammalati poveri di questa città e per l’altro in maritaggi di venti ducati ciascuno per venti donzelle di Nardò, orfane di padre e madre.
Questa assegnazione doveva essere estratta a sorte nella Cattedrale il giorno di Pentecoste e alle favorite si doveva consegnare la dote, a matrimonio avvenuto. Mancando qualche anno ammalati poveri, la parte dovuta doveva andare a favore dei maritaggi e viceversa, mancando gli uni e gli altri, tutta la rendita doveva essere impegnata in celebrazioni di Messe.
Primo Economo fu l’abate Giuseppe Corbino, tesoriere della cattedrale. Fra i tanti beni del Pio Monte ricordiamo la masseria Ingegna, la chiusura di Fabrizio (1680 alberi di ulivo), le masserie Taverna, Cravascio, Bella Nova e Corsari, un palazzo su via Lata, un giardino al Ponte, sei case nel vicinio della Misericordia, una bottega nei pressi di S. Domenico, alcuni magazzini in Gallipoli, capitali dati in enfiteusi a varie persone, canoni e censi gravanti su case e terreni.
Il Corbino formulò un regolamento in cinque punti e nominò un fattore o sorvegliatore. In seguito il medesimo Giuseppe Oronzo Sambiasi diede le norme per lo sviluppo dell’opera. Doveva chiamarsi Pio Monte dei Sambiasi, essere amministrato dalle persone che indicò collegialmente e scrupolosamente per il bene delle categorie designate.
Le regole dell’Istituzione furono confermate con Regio Assenso di Ferdinando IV l’8 agosto 1783. Fu amministrata dalla Commissione Comunale di beneficenza, poi dalla Congregazione di Carità, sin dalla fondazione di questa per effetto della legge 3 agosto 1862. Il patrimonio dell’istituzione nel 1927 ammontava a L. 638.888,60.
Le brevi note suesposte, tutte documentate e parte di un lavoro più ampio di cui lo scrivente si sta occupando, evidentemente denotano che l’ospedale a Nardò si regge su un lascito che oggi non può ignorarsi, anche se risalente a oltre duecento anni fa.
Le volontà testamentarie dei donatori furono rispettate sino agli anni 70 dello scorso secolo, quando la riorganizzazione sanitaria italiana rivide tutto l’assetto e la stessa gestione. Sono gli anni in cui, misteriosamente, non si ebbe più notizia di quell’ingente patrimonio lasciato a pro dei cittadini, in perpetuo (così è scritto nell’atto notarile), e che se oggi dovesse essere quantificato corrisponderebbe a svariati miliardi di Lire.
Proprietà tuttora ben identificabili, notevoli, estremo gesto di carità e di amor patrio forse impensabile ai nostri giorni. Furono queste lasciate ad esclusivo godimento dei concittadini dai testatori, encomiabili ultimi rampolli di cotanta gloriosa nobiltà e sconosciuti benefattori, che vollero raccomandarsi al sindaco della città e al vescovo diocesano e loro successori di vigilare costantemente sulle loro disposizioni, che non sarebbero mai dovute venir meno: “…debbano con esattezza mandar ad effetto la suddetta pia disposizione… Monsignor Vescovo pro tempore di detta città, erede fiduciario ed esecutore testamentario, debba governare, disponere e dirigere l’ opera suddetta coll’ intervento, assenso e consenso delli suddetti Archidiacono, Arciprete, Teologo, delli suddetti RR(reverendi) PP(adri) Graduati, del Sindaco, delli Procuratori pro tempore di detto R.mo Capitolo…”.
Si riguardino dunque le carte, si leggano i documenti notarili, si consulti l’archivio storico del Comune e dell’Ospedale civico e si constaterà che quanto riportato è assolutamente veritiero.
I cittadini di Nardò, alla luce dei documenti di cui sopra, non possono essere privati di un bene che fu loro donato da gloriosi cittadini lungimiranti e regolato da precise norme, purtroppo evase e, forse volutamente, dimenticate.
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