E ora, che succede? Tendenzialmente, niente. In quel deserto dei Tartari che è diventata la politica italiana, ormai si gira in circolo, e dopo Mirabello siamo tornati pressappoco dove eravamo prima di Mirabello.

 Dice Maroni che «con questo discorso Fini ha passato il cerino nelle mani di Berlusconi. Di solito quando uno ha il cerino in mano può scottarsi, ma è anche padrone del gioco».

Il che ci riporta a lui, l’uomo di Arcore. Il quale da qualche mese si sveglia ogni mattina con una domanda leninista nella testa, «che fare?», alla quale comprensibilmente non ha dato ancora risposta. La situazione in cui l’ha messo Fini non è infatti per niente semplice, e comunque lo è molto di meno di quanto i suoi pasdaran gli fanno credere. Il Pdl, la grande idea di un bipartitismo all’italiana in cui avrebbe sempre vinto lui, è finito. E ora deve inventarsi un altro schema di gioco se vuole salvare il bene più prezioso: il potere.

Si fa presto a dire «elezioni», come fa Bossi. Lui è in una situazione win-win, vince comunque, comunque vada. Il Cavaliere, invece, ci si gioca la ghirba: per lui perdere il governo può voler dire una condanna penale.

Immaginiamo dunque che Berlusconi decida di risolvere il busillis Fini con il voto anticipato. Mettiamo pure che lo ottenga e che non si materializzi lo spettro di un governo di transizione, Tremonti o Pisanu o chicchessia, che metta insieme tutti i deputati che non vogliono tornare a casa perché sanno che rischiano di non tornare più a Roma. Mettiamo dunque che Berlusconi ottenga le elezioni. Ha un’ottima probabilità di vincerle. Ma come può esserne sicuro? E, soprattutto, come può sperare di vincerle come ha vinto le ultime?

Se sulla scheda elettorale, come è probabile, avremo tre poli, Berlusconi avrà infatti la quasi certezza di non avere la maggioranza al Senato. Perché al Senato il premio di maggioranza non c’è, ma ma ci sono tanti piccoli premi di maggioranza regionali. E se il terzo polo supera l’8% dello sbarramento (con Casini, Rutelli e Fini insieme lo supera di sicuro), la frittata è fatta. Berlusconi potrebbe non avere la maggioranza nelle due camere, necessaria per poter formare un governo. Il plebiscito sarebbe fallito. La probabile vittoria a Montecitorio (seppure anomala, il 55% dei seggi con meno del 40% dei voti), sarebbe mutilata. In un simile scenario, il premier lo fa Tremonti.

Se invece sulla scheda elettorale i poli saranno due soltanto, il Resto del Mondo contro Berlusconi-Bossi, il rischio di sconfitta è reale. Sarebbe certamente molto difficile spiegare l’ammucchiata «antiberlusconiana», ma qualche emergenza democratica o istituzionale per giustificarla se la inventeranno. E per quanto l’ammucchiata possa allontanare un po’ di elettorato verso l’astensionismo, il Resto del Mondo contro il Caimano è una partita aperta a ogni risultato.

Più ci si ragiona, e più si capisce dunque perché il premier è diventato così prudente sulle elezioni anticipate e perché l’arma che ha finora agitato verso i ribelli sembra di colpo scarica. Il voto può essere la rovina comune. Come ha detto Fini l’altro giorno a Mirabello: sarebbe un fallimento per me, ma sarebbe un fallimento anche per Berlusconi.

D’altra parte, si capisce pure che Berlusconi non possa accettare il prezzo dello scambio che gli propone Fini: la nascita di un terzo partito della maggioranza, la terza gamba con cui contrattare ogni passo del governo, così come adesso si contratta con la Lega. Sarebbe infatti il trionfo della guerriglia dei ribelli, e la fine del mito del Capo indiscusso e indiscutibile, dell’Uomo solo al comando, dell’Unto del Signore. Sarebbe la nascita di un vero e proprio governo di coalizione, la negazione del bipolarismo come lo intende Berlusconi. E sarebbe anche la prova che ribellarsi al Padrone paga.

Questo è l’angolo politico in cui è stato messo l’uomo che ha stravinto le elezioni appena due anni fa e che ancora comanda il cuore di milioni di italiani come nessun altro. Per questo, per la prima volta dopo tanti anni, non vorremmo essere nei suoi panni. La situazione è per lui così pericolosa che non è escluso che alla fine sia costretto a uscirne alla sua maniera, con uno strappo, con un’esplosione, con un predellino, con una scommessa.

Ma stavolta, se lo farà, non sarà per scelta, bensì per necessità. Non per vocazione, ma per disperazione. Siccome lui è un calcolatore, piuttosto che rischiare di tirare le cuoia proverà a tirare a campare. Almeno fin quando potrà.

 

Fonte : Il riformista

 

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