Da solo in macchina e senza scorta si stava recando da Canicattì in tribunale ad Agrigento.

 I sicari lo aspettavano e quando lo videro lo inseguirono, cercarono di speronarlo, lo costrinsero a fermarsi. Un testimone vide con sgomento che Rosario Livatino, dopo avere abbandonato l’auto, cercò una disperata fuga per le campagne ma il gruppo di fuoco lo raggiunse e lo uccise. Così moriva 20 anni fa un “giudice ragazzino” che svolgeva il suo lavoro con scrupolo ma anche con una visione ideale del proprio ruolo.

Cercava di dare “un’anima alla legge” aveva spiegato in una conferenza poco prima di essere eliminato. Era la mattina del 21 settembre 1990. Livatino aveva 36 anni ma già si era occupato delle prime avvisaglie di una tangentopoli siciliana e di vicende di mafia che avevano rivelato l’esistenza della “stidda”, un’organizzazione in ascesa che contendeva a Cosa nostra il controllo delle nuove frontiere criminali: appalti, traffico di droga, riciclaggio. Due dei quattro sicari, Domenico Pace e Paolo Amico, furono arrestati subito in Germania dove avevano cercato rifugio. Vennero individuati sulla base delle indicazioni di un agente di commercio, Pietro Ivano Nava, che al momento dell’agguato stava viaggiando sulla Agrigento-Canicattì. Scoperti anche gli altri responsabili e i mandanti per i quali sono stati celebrati tre distinti processi.

Dalle indagini è emerso che Livatino venne ucciso perché “perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioé una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia”. Il progetto criminale era stato ideato da Giovanni Avarello, esponente di una cosca emergente a Canicattì contrapposta a un vecchio clan capeggiato da Giuseppe Di Caro e legato a Cosa nostra.

Con l’uccisione del giudice “ragazzino” la “stidda” avrebbe voluto dare una dimostrazione di forza a Cosa nostra. Pace e Amato sono stati condannati all’ergastolo con gli altri due componenti del gruppo di fuoco, Giovanni Avarello e Gaetano Puzzangaro. Nell’altro filone processuale alla stessa pena sono stati condannati come mandanti Antonio Gallea, Salvatore Calafato, Salvatore Parla e Giuseppe Montanti. Quest’ultimo, arrestato ad Acapulco dove aveva seguito la figlia in viaggio di nozze: avrebbe messo a disposizione del commando una abitazione e mantenuto i contatti con alcuni latitanti all’estero. A pene minori sono stati condannati i pentiti Giovanni Calafato e Giuseppe Croce Benvenuto.

Sulla vicenda di Livatino, per il quale la Curia di Agrigento ha promosso un processo di “beatificazione”, è nata una polemica che ha coinvolto l’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che in una “esternazione” durante l’inaugurazione del tribunale di Gela aveva attaccato i “giudici ragazzini”. L’espressione usata in quella occasione provocò forti reazioni e venne ripresa nel titolo del libro di Nando Dalla Chiesa su Livatino. Cossiga ha sempre negato che si riferisse al magistrato ucciso.

Vent’anni fa l’uccisione del ‘giudice ragazzino’

Fonte: Ansa

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