L’affondo di Gianfranco Fini, all’indomani dell’analisi di Sergio Marchionne sulla Fiat a Che tempo che fa, non sgombera il campo di pensiero dai dubbi ma, anzi, ne aumenta il perimetro.

 

Ieri l’Ad del Lingotto aveva esaminato la situazione di fiat in Italia in un discorso riassumibile in 3 passaggi chiave. Primo: per Marchionne nemmeno un euro dei 2 miliardi di utile è fatto in Italia.

Secondo: Per l’Italia il “vero problema” è quello della “competitività” ma siccome il nostro paese ha grandi potenzialità, il Gruppo Fiat è pronto a portare i salari degli operai ai livelli dei Paesi che ci circondano (il divario con le Tute Blu al netto ruota attorno al 25%, ndr).

 Terzo: dice Marchionne che “tra il 2008 e il 2009 la Fiat è stata l’unica azienda che non ha bussato alle casse dello Stato” diversamente da quanto fatto da molte concorrenti europee.

Le reazioni sono piovute copiose e stamani è arrivata la “lezione” di Gianfranco Fini che s’è guardato bene dall’entrare nello specifico del problema, nel cuore del cambiamento, nella trasformazione delle relazioni industriali che il numero uno del Lingotto sta portando avanti, ma ha puntato il dito su due o tre cosucce, tutte ovvie. Fini dice: “Se la Fiat è ancora un grande colosso, è stato perché c’era il contribuente italiano a garantirlo”, e per questo “è un po’ paradossale che l’Ad della Fiat si esponga”. E poi: “Mi sembra che Marchionne ieri abbia dimostrato di essere più canadese che italiano: lui ha detto una cosa che è naturale se viene detta da un top manager non italiano”.

Certo, ha aggiunto Fini, “il nostro è un Paese che per mille ragioni ha una scarsa capacità di attrarre capitali, e competitività del lavoro”. E quindi? Viene da chiedersi. Salvo registrare che a dubbio non segue risposta. L’analisi finisce lì. Eppure da un leader politico ci si aspetta altro. Va benissimo ricordare che in Italia manchi competitività ma serve spiegare qual è la strada per recuperare il gap che ci divide dagli altri paesi. Altrimenti, meglio stare zitti.

Sarebbe servito sentire da Fini come fare per coniugare la crescita con l’austerità di bilancio (come fa la Germania che cresce non solo grazie all’export ma anche grazie alla ripresa dei consumi) e se quella è una via percorribile anche per l’Italia. Sarebbe servito sapere se secondo lui l’equazione più flessibilità uguale più investimenti è un’equazione vincente, se e come l’Italia può puntare ad avere istituzioni del mercato del lavoro più moderne e adeguate ai tempi.

 Così facendo, Fini avrebbe alimentato quel confronto a lui tanto caro e in nome del quale ha lasciato il Pdl (da lui medesimo definito una caserma) per dare vita a un nuovo soggetto politico. Chi davvero crede che il dibattito e il confronto politico sono il sale della democrazia avrebbe preso la palla al balzo per pesare la forza riformista e futurista di Fli, ma forse a Fini misurarsi su certi temi non conviene.

Così ci ricorda che la Fiat è una grande colosso per merito dei contribuenti. Bella scoperta. Ci voleva lui per farci sapere che la Fiat ha vissuto per anni di aiuti di stato. Sarà piuttosto che al presidente della Camera non conveniva entrare nel merito delle nuove relazioni industriali per dire qualcosa di inedito? Un obiettivo lo ha centrato: quello di uscire ancora una volta sulle prime pagine dei giornali per aver detto qualcosa di sinistra. Ma questa non è una notizia.

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