Mi vergogno un po’ a pubblicare una cosa del genere, poi però, ripensandoci, mi dico: se hai avuto il coraggio di pubblicare in forma libracea Con Decenza Parlando, con esiti superiori a ogni aspettativa, perché non dovresti pubblicare questo raccontino che poi altro non è che un compendio di tutto quello che c’è nel libro? E allora, beccatevi questa!

 

  Chi si pensa che so parlare solo in indialetto e non mi raccolgo con l’italiano si sbaglia di grosso e ve lo dimostro raccontandovi quello che mi è successo l’altro giorno, dopo la festa di San Giuseppe.

C’era ancora montata la parazione del paniere sobbra il corso, che arrivava fino a raso alle transenne che avevano messo vicino alla Comune per i lavori di asfalto, che poi non devono usare la catrame ma le pietre vive nuove, che quelle vecchie sono già morte. Di cui però hanno lasciato il passaggio per arrivare alla Ialata che è una via importante del centro urbanistico di Nardò.

Avevo appena scapolato del lavoro e stavo uscendo dalla limentari dietro il tabbacchino, dove mi ero fatto giustare un panino con la salame e con la provola che aveva una sapore che era veramente qualche cosa, ché a me a una certa ora mi si forma sempre un buco proprio alla bocca dell’arma. Che sai quanto dice quando ti metti una cosa nello stomaco?

Mi dirigevo con una certa pressa verso casa perchè non mi ricordavo se Alice, la mia muscia domestica era rimasta chiusa fuori del farcone, e tenevo paura perché quella quando vede e non vede è capace di saltare come un gatto sulle cappotte delle macchine parcheggiate sotto al farcone a rischio che gli senga la vernice.

Stavo camminando sul marciapiede con il pensiero, cercando di non imbuzzare nelle cacche dei cani, quando un morzo di mosticio che neanche sembrava a terra mi taglia la strada con uno scuterre smarmittato che spernacchiava decibelle da una marmitta bucata come una pezza di caso svizzero, facendomi prendere pantico.

<< Sangue dell’urnia!!! >> ho gridato, e un altro poco mi veniva un corpo di sangue. Meno male che era poco che mi ero fatto un ketchup totale, che avevo gli esami sballati con il polistirolo alle stelle, la glicerina alta, gli acidi undici in aumento, i tricicli che camminavano una bellezza, certi smottamenti di panza preoccupanti e una rachite che non riuscivo a parlare e mi era anche venuto un alito pesante di acetilene, tanto che certe volte mi sentivo che mi perdevo di respiro e mi dovevo fare le analazioni. Meno male che l’elettroradiogramma stava ingraziato e agli esami del sangue i globbi rossi erano buoni.

Passato lo scanto, ho cercato di buttargli una scoppola sulla cotella di quelle che ti fanno perdere la palora: che io quando mi insultano la testa non mi mantiene. Ma quello è schizzato come una fracella e si è fermato a raso al marciapiede alzando lo scuterre sullo scannetto, incocogliandosi su un pizzulo e guardandomi con una facce di balengo.

L’ho guardato fisso nelle palle degli occhi e gli ho detto:

<< Valiò, vieni qua, vieni! >>

<< E perché? >> mi ha risposto lui fastidiato.

<< Perché così ti imparo la buona ducazione, se non la sai! >>

Dice: << La mamma mi ha detto di stare largo dalle persone strane! >>

<< E quella buona donna non ti ha imparato a portare lo scuterre come Dio comanda e a non scantare le persone che camminano in grazia di Dio sul marciapiede? Vieni qua, ti ho detto! >>

<< None none! >> insiste quel guastasi.

<< Quanto vengo lì faccio che vedi! >> gli ho gridato io incazzato. Ma quello, se che mai il mondo gli avevo detto niente. Continuava a guardarmi con una facce così schifata, così posaturo e strafottente che sono rimasto!

<< Come ti tieni? >> gli ho chiesto con la facce severa.

<< Con le mani! >> mi ha risposto lui, quasi che non aveva capito la domanda.

<< Chi ti ha creato! Allora non hai capito che se continui così ti faccio un esposto? Ti vuoi sporcare la fettina penale o vuoi rimanere illibato? Decidi tu! >>

A questo punto ho visto che il telinguente cominciava a preoccuparsi a quel biondo dio e allora ho insistito con le minacce, e mentre lo scantavo di brutto piano piano mi cucchiavo per cercare di ventolargli una mano inversa, che ancora mi prudevano le mani per la stizza che mi aveva fatto salire, che gli avrei tirato anche un talorno in testa, se lo tenevo. Il malecarne però si stava bene attento, che sicuramente ormai era spramentato ed era imparato a farsela anche con i più grandi di lui senza buscarle mai. Era proprio uno di quelli che non gli puoi neanche dire questo passa.

Che mondo, che azioni! Questi giovani c’è che li triffi tutti! Non hanno rispetto per i grandi e di questo passo chissà dove andremo a finire. Ma se la lunedì mattina si dovevano alzare per andare alla scatena con una zappa di sette chili vedevi che non gli veniva cuore di andare alla discoteca, che poi si intursano, gli cala il sonno e si stampagnano con le macchine. Sono proprio senza chifali, che gli cade una saglietta almeno almeno! Ah, se si alzavano i vecchi! Amaro per loro, amaro!

Mentre che riflettevo se lo dovevo lasciare libero o se gli dovevo stroncare la carriera, tutto an coddo si mise a piovere con i sani sensi, e io ero uscito senza neanche l’ambrella, quindi per non buscarmi di nuovo una frussione abbandonai il guastasi sotto la scaricata e cominciai a correre parete parete sui marciapiedi passando sotto i farconi. Mentre che mi ritiravo pensavo dentro di me che non esistono più le mezze stagioni, ma in compenso esistono tante mezze cartucce come quella che mi aveva fatto perdere di pazienza.

Arrivato sulla porta di casa, nel mentre che cercavo la chiave nel mazzo, la mettevo nella inserraglia e facevo i cinque giri che servono per togliere il manese, mi buscai parecchia acqua sulla testa, tanto che mi sconzava la pettinatura e mi scolava sul collo la brillantina Linetti che mi ero messo per non fare uno sbaglio. Nel mentre, pensavo dentro a me: “Ma guarda mente e vedi se un cristiano deve perdere tanto tempo a mettere e a togliere il manese per paura della telinguenza, quando invece potevamo stare tutti in grazia di Dio con le porte aperte come facevo alla Svizzera dove non toccavano niente e dove non se ne andava mai la luce!”

Appena aperto il portone arrivò Alice bagnata a puricino e si fiondò in casa andandosi a immasonare sotto la sdraia vicino al focalire. Si vede che era saltata dal farcone sulla cappotta della cinquecento blè di Mesciu Lelè, che stava proprio sotto, e siccome che la noveglia aveva scaricato a cieli aperti si era combinata ecce omo.

A casa mia gli animali non mancano, che quando mi stavo facendo le case entravano a ripararsi per il maletempo e poi non uscivano più che si trovavano bene: e chiamali fessi! Oltre alla Alice c’è anche Dolly, diminutivo di Addolorata, che non è una pecora ma una cane bellissima di razza bastarda che ogni tanto sforna quattro o cinque quadrupedi pelosi e pulciosi che inguacchiano tutto e impestano l’aria con un affito di cresto che per toglierlo ci vogliono litri di canditina. Poi tengo un pappagallo parlante che non si prende mai gli interessi suoi, impara le parolacce e poi le ripete a pappagallo davanti ai cristiani facendomi rimanere imbalsamato per lo scorno. Tengo anche una cilona nel giardino, una tartaruga insomma, che è quella che dà meno fastidio di tutti. Basta che gli butti qualche scalora ogni tanto o qualche torso di rapacavolo che sta una meraviglia. D’inverno poi si masona sotto terra e chi si è visto si è visto: non la vedi più fino alla prossima primavera.

Mia moglie non è molto contenta di tutti questi animali perché dice che già bastavo io e che poi lei deve fare la serva e scolare come una candela per sestimare tutto, che io pulisco all’acqua di rose, quanto sembra che sembra.

In tutti i modi la storia con il piccolo scuterista non era finita, come io mi credevo, perché a un certo punto, nel mentre che mi levavo le scarpe per mettermi gli scarponi, di bello e buono mi suona il campanello di casa con una insistenza come se a qualcuno con l’artetica gli stavano prudendo le mani, per non dire un’altra cosa più bassolocata. Mi affaccio incuriosito al farcone, tenendomi forte alla ferrata per le vertigini e anche perché, da quando ero corciulo, mi è rimasta la paura della Manulonga, che la mamma mi diceva sempre di non affacciarmi che senò mi prendeva e mi buttava di sotto; comunque mi affaccio lestesso e vedo il malecarne di prima che mi guarda dal basso verso l’alto e mi dice:

<< Crussupì, prima hai detto che mi facevi un esposto e che rimanevo illibato. Gli ho detto questa cosa a mio fratello grande e lui mi ha fatto una vernia perché non l’avevo chiamato subito che così veniva lui a sestimare le cose, che con lui ci togliamo dieci anni e venti chili. Mi ha detto di domandarti che cosa vuole dire illibato, che se è una parola di offesa viene qui e ti fa vedere lui! >>

<< Giovanotto, quasi sia mi stai minacciando, per caso? >> gli domandai. << Ché ti sei alzato con il pensiero di dare fastidio alla gente, stamattina? >>

Ha detto, dice: << Tu a me non mi dovevi dire questo passa, hai capito? Se no mio fratello ti guasta la carta d’identità! >>

<< Che ti cade una sajetta! Paro paro a me che fatico all’anagrafe mi viene a guastare la carta d’identità, tuo fratello? Lo sa che io gli posso fare un passaporto per i Bobboi? Lo sa che quando mi cazzano i piedi io meno calci? E tu? Ti sei preso il pasquale fastidio di venire a scartavetrarmi i gioielli di famiglia per questo? >> li dissi. << Fintanto che stavamo in mezzo alla strada, guai e non guai, ma mo’ che hai avuto la facce di venire sotto a casa mia come minimo ti incollo uno scollacchio che ti faccio girare come un rocolo per una settimana! >>

Nel mentre che gli dicevo queste cose già comincio a scendere la scala, facendomi gli scaloni a due a due, e appena arrivato al portone lo spalanco tutto in una volta per spramentarlo, ma quello, che aveva capito lo scarto e mi aveva impostato, mi tira un calcio dal basso verso l’alto colpendomi proprio alla natura, facendomi scrofolare e rocolare all’andretola. Il dolore era così forte che mi perdevo di respiro e quando mi ripresi iastimavo in turco ma con la voce della Russo Jervolino, proprio lei che non l’ho mai potuta cecare, tanto mi stava sugli ovali doloranti. Sono anche andato isa isa a farmi male a un piede, con decenza parlando, che, mo’ se ne viene, è proprio dalle basse cadute che ti devi guardare. Ma quello che mi faceva schiatto più di tutto era che mi ero fatto impapogliare da un azzapiedi come quello, che sì e no aveva finito quattordici anni e stava entrando ai quindici: io, una sorta di tantazione come me che sta camminando ai cinquanta e che i peggio malecarne della 167 mi fanno un baffo.

E’ proprio vero, non ti fare mai chiabbo degli altri, che se in cielo sputi in faccia ti cade!

Con questi pensieri dolorosi, mentre il guastasi se ne fuggiva, mi alzo faticosamente con l’idea di andare a pigliarmi una cosa al barra che c’è a mano mancina, ma poi per lo scorno della figura che avevo fatto e per la voce da uomo sessuale che ancora mi usciva, decido di ritirarmi in grazia di Dio a leccarmi le ferite … per modo di dire.

Da quel giorno quando sento il rumore di uno scuterre mi sto più accorto, ma spero sempre di incontrare quel dissonesto perché a me quando le mosche mi passano due volte davanti al naso io gli butto il fritti e le stendo.

Comunque, mi stavo riprendendo piano piano quando sento suonare addietro il campanello. Stavolta era un crussupino di mia madre che era buono che non veniva, anche perché eravamo rimasti un poco male, anzi per la verità avevamo quasi fatto stozze.

Da una parte me l’aspettavo, perché quei parenti che non stai buono vengono sempre ai momenti sbagliati: o quando non hai sestimato a casa o quando devi uscire a sbrigarti qualche cosa. Se si cotola qualche dente o ti devono incozzettare qualche perno vedi che se ne calano di spighetto, con il tre percento.

La verità non sapevo se gli dovevo aprire, visto che è un vero scorzone sordo, ma poi per l’amore della nonna, paraisuaggia, che non ci voleva vedere litigati, l’ho fatto entrare, anche perché mi era presa la curiosità di sapere quale dente si stava muovendo.

Ha detto, dice: << Crussupi’, beato chi ti vede! Ci siamo fatti strani ormai, eh?! >>

<< Grego’, mo’ non cominciare a strolacare, vabbé? Lo sai che sei stato tu che hai guastato le carte, con la storia di quelle quattro orte a Pappagghiano! >>

Dice: << Per l’arma tua, Totò, che fai, mi canti la crasta, adesso? Come: prima mi fai entrare e poi fai il dietropiede? >>

<< Non ti preoccupare Grego’, per me è acqua passata, ormai. Che poi veramente ti pensavi che per quattro aroli di olive che non ne raccogli neanche un macinino di olio mi dovevo fare amaro con tutti? >>

Dice: << Finalmente ti sento parlare con i sani sensi, che ultimamente mi pareva che eri spitirzato e ti eri impennato un po’ >>

<< Lascia perdere Gregorio, che sa Dio come stai combinato tu. E poi ricordati che ci togliamo tanti anni, noi. E che siamo, sozzi? Già è soperchio che ti faccio parlare, che non sei paro mio, tu! Avanti, dimmi, che comandi? vuoi niente? >>

Dice: << Senti cugino, lo sai che tra poco ci sono le elezioni per la Comune, no? >>

<< Sputa che incolla!!! Altro che dente! Qua si muove tutta la dentiera, compresa la sangia, mi pare! >>

<< Che vuoi dire? >>

<< Voglio dire che ho capito perché sei venuto, che qua se sei fessa statti a casa tua! Quasi quasi era meglio quando eri prete, senti a me, che poi ti sei spogliato per andare dietro a quella lunga per niente di tua moglie. Tando ti occupavi della fame dello spirito e avevi poco appetito, mi ricordo, tanto che quando mangiavi lasciavi sempre la creanza dello scarparo nel piatto e in tasca avevi sempre sì e no quattro spiragghie. Oggi invece si fa sentire la fame del corpo, vero? Eh, certo la pensione di guerra del nonno, la reversibilità della nonna e l’invalidità di sirita sicuramente non bastano a mantenere quel cascione di macchina a cinque ruote motrici che ti sei comprato e tutti i tuoi vizietti, quindi ti sei fatto il paro e sparo e hai deciso di entrare in politica di modo che dai una sestimata alle finanze opuramente infili qualche sciuscietto tuo in qualche posto dove lo stipendio cammina, vero? >>

<< Totò >> dice << mo’ stai arrivando alle vigne dell’arciprete! Che, te la vuoi scontare per quelle vecchie storie oppure ti vuoi inzuppare il biscotto perché sai che sono bisognevole di appoggio? >>

<< Che adesso ti credi! Sei venuto tu a cercarmi e quindi devi abbassare le ali e sucarti qualche scaffolla, se no lo sai quanti amici candidati tengo io e, la verità, non è che sto pensando a te dalla mattina alla sera. Anzi, ho sempre pensato che a te il padreterno ti ha cominciato e non ti ha mai finito, dato che ti manca il meglio e la testa la porti per portare a passeggio gli occhiali, però del resto… gira che trovi… non è che gli altri sono meglio e non c’è che ti mangi la testa, alla fine. >>

Dice: << Quindi vuol dire che alle votazioni mi voti? >>

<< Sine, sine, non ti preoccupare!, quando io dico sì non è sì con la gamba di dietro, come fanno certi: con me puoi stare escogitato. Ricordati che chi ha a che fare con me se ne vede solo bene e sanitate. Che poi quando sei salito sobbra alla Comune qualche cosetta te la devo chiedere, così ti potrai dissobbligare al giusto per il fastidio che mi prendo a mettere una croce sulla tua facce di sacristano e monaco falso. >>

<< Totò, allora dobbiamo brindare alla grande con questa bottiglia di sciampagna che mi sono portato! >>

<< Allora, se hai portato la chiarenza, vuol dire … quasi … che te l’aspettavi la mia risposta? >>

<< Che no? Che ti credi, che sono l’ultimo fessa che passa dalla strada? >>

<< L’ultimo no, in caso mai il primo. In tutti i modi non ti dovevi prendere fastidio che bottiglie ce n’è tante, qui. >>

<< Cucchiami i bicchieri, Totò, che li riempio! >>

<< Tieni, tieni, che se no spitterra! E poi se mi brillo lo sai che divento tristo e mi prende lo strincolo e poi è capace che cambio idea. >>

<< Per l’arma dei morti, no, no!!! Ungi l’augurio!!! Cittu e bivi, crussupì! Cin cin! Viva l’Italia!!! >>

 

<< Bonasoruta, sanitate cu nd’aggi! >>

 

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