«Do you speak English?»: è questa la domanda che sempre più turisti stranieri pongono a gestori di ristoranti e boutique del centro di Lecce ma spesso la risposta, se c’è, non è affatto eloquente e anzi a dir poco maccheronica.

«Siamo obbligati a usare le poche parole di italiano che conosciamo», spiegano persino dei turisti spagnoli.

Il livello medio di inglese è infatti molto basso ed è difficile imbattersi in situazioni in cui i gestori riescano a cavarsela con qualche parola in più del solito «spaghetti with tomato». Scene che ricordano Totò e Peppino a Milano quando, in piazza Duomo, il principe De Curtis approcciava un vigile urbano in cerca di un’indicazione stradale: «Noio vulevan savuar l’indiriss, ja?». Una situazione però poco lodevole in una città così fortemente votata al turismo per la quale persino il Comune, qualche tempo fa, aveva tentato di intervenire con un corso gratuito di inglese per i gestori dei locali che però riscosse ben poco successo.

La tendenza è trovare una scorciatoia per cavarsela e la soluzione più gettonata nella classifica dei «metodi di sopravvivenza» è affidarsi a personale qualificato: cioè giovani camerieri che hanno dimestichezza con la lingua: «Mi affido a loro per comunicare», spiega il titolare de «la Negra Tomasa» in via Aragona e anche il pilastro gourmand della «society» leccese, la pasticceria Alvino, vanta camerieri multilingue. Grande successo riscuotono poi menu e brochure in lingua.

«Ne ho una per l’inglese, il francese e il tedesco», spiega l’artista Claudio Capone, che nella sua bottega in centro storico vende fischietti e opere in terracotta. «Ma ho imparato le parole base – tiene a sottolineare – e riesco a raccontare che sono opere frutto di una lunga tradizione». Più difficile con il cibo, soprattutto per piatti tipici che spesso hanno solo nomi dialettali.

Eppure al ristorante «Alle due Corti» sull’invitante menu c’è pure la traduzione di «sagne ncanullate» e «ciciri e trjia»: dieci e lode all’impegno. Meno numerosa la categoria dei fortunati: cioè quelli che almeno un’infarinatura di inglese ce l’hanno. Come la titolare della Torrefazione Kaldì, nei pressi di porta San Biagio.

 «Dopo aver vissuto anche all’estero mi rendo conto che in paesi come la Croazia e la Grecia anche i bambini sono più bravi di noi con l’inglese, per questo se fosse di nuovo promosso un corso lo farei», riflette. Non sempre però è facile trovare il tempo per approfondire la lingua e allora c’è chi pensa a metodi alternativi.

 Come i soci del pub Joyce, che dopo aver ampliato il locale con un’osteria si sono resi conto che spiegare ai clienti stranieri gli ingredienti e la storia dei piatti sarebbe stato appagante. E così hanno chiamato un’insegnante di inglese per fare conversazione una volta a settimana. I turisti ringraziano, e confermano ancora una volta la teoria di Darwin: sono sempre i più forti ad andare avanti.

 

 

Fonte: CdS

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