Parecchi anni fa, quando il tennis occupava ancora gran parte del mio tempo libero e anche dei miei pensieri in libera uscita, mi capitò di leggere un episodio descritto da un grande cronista sportivo americano,

 il quale raccontava di quando portò per la prima volta un amico a vedere una partita di tennis in un grosso torneo del Grande Slam, in un periodo che va tra i Cinquanta e i Sessanta, non ricordo. L’amico del cronista rimase molto soddisfatto dello spettacolo visto, tanto che si appassionò a quello strano sport e cominciò a frequentare i vari tornei.

 Purtroppo però, più il tizio vedeva giocare e più il suo interesse sembrava affievolirsi, tanto che ad un certo punto espresse all’amico cronista una palpabile delusione nei confronti di uno sport che sembrava aver deluso le sue aspettative. La spiegazione di questo fenomeno è molto semplice: i tennisti impegnati in quella prima partita da lui vista erano nientemeno che i leggendari Rod Laver e Ken Rosewall, due tra i più grandi tennisti di tutti i tempi, e quella partita è passata alla storia come uno dei più straordinari match mai giocati sui campi da tennis di tutto il mondo. In altre parole il tizio aveva avuto la fortuna-sfortuna di avere il primo approccio col tennis guardando una partita dal valore trascendentale, ma non poteva saperlo. Lui pensava che tutte le partite fossero come quella e quando si rese conto che non era così restò profondamente deluso.

La prima riflessione che suscita questo illuminante episodio riguarda quel fenomeno studiato dal celebre etologo Konrad Lorenz: l’imprinting, ossia quella disposizione naturale che le sue oche dimostravano nel considerare come propria madre naturale il primo essere vivente col quale venivano in contatto appena fuori dal guscio. Con questo non intendo incoraggiare alcun parallelo tra gli esseri umani e gli ottusi palmipedi pennuti da stagno, nonostante talune tipologie umane siano assimilabili idealmente agli stessi. È solo per dire che molto spesso è la prima impressione quella che conta e che orienta il nostro interesse o il nostro disinteresse verso le cose.

Ma quello che maggiormente mi intriga nella storia raccontata è il fatto che in quel frangente, la leggendaria partita di tennis, mancava del tutto una componente che di solito è presente nella maggior parte delle situazioni umane, ma la cui importanza ho l’impressione venga trascurata: mancava l’elemento della mediocrità. Ossia, lo spettatore neofita non aveva, in quel caso, alcun parametro di valutazione per stabilire se quello che vedeva fosse uno spettacolo straordinario oppure qualcosa ascrivibile all’ordinaria amministrazione.

Cioè, lui non poteva sapere che le situazioni di gioco che vedeva erano degne degli dei dell’Olimpo, per il semplice fatto che non aveva mai visto prima una partita “normale”, giocata da tennisti abitanti sul pianeta Terra. In altre parole, non conoscendo l’elemento della mediocrità o, se vogliamo, della normalità, non poteva riconoscere quello dell’eccellenza e la sua scala dei valori era viziata da un punto zero collocato troppo vicino al valore massimo possibile, col risultato che tutte le successive esperienze erano immancabilmente collocabili al di sotto di quel punto zero troppo elevato. Si potrà obiettare che è comunque preferibile muoversi stabilmente su livelli di eccellenza, qualunque cosa si faccia, ma nonostante l’apparente ferrea logica di questa impostazione io non ne sarei così sicuro.

Il fatto è che la bellezza va presa a piccole dosi per poter essere assaporata in pieno e anche per evitare che ci travolga. Se il mondo fosse abitato solo da cloni di Monica Bellucci finiremmo per non apprezzare più la bellezza femminile e per essere schiacciati da un senso di inadeguatezza che ci consegnerebbe alla più sconfortante depressione. Abbiamo bisogno anche della “diversamente bella” e intelligente Littizzetto per apprezzare la Bellucci e sentirci parte attiva in un mondo a nostra misura. Lo stesso discorso vale ovviamente ribaltando la prospettiva dal maschile al femminile. Allo stesso modo, non posso pensare di ascoltare ventiquattro ore al giorno Charlie Parker o Miles Davis: finirei per impazzire in un delirio di scale velocissime o di stati emotivi lancinanti come le note di quella tromba delirante e, come minimo, smetterei di suonare per manifesta incapacità di rapportami con un universo sonoro così totalizzante.

 Ho bisogno di sapere che esiste anche, se non proprio un Nino D’Angelo, almeno un substrato musicale nazionalpopolare sul quale appoggiare le mie speranze in un mondo musicalmente più evoluto, senza farmi schiacciare da devastanti complessi d’inferiorità. Non posso pensare di cantare lieder di Gustav Mahler o temi dai Quadri di un’esposizione sotto la doccia, finirei per consumare l’intera saponetta e tutta l’acqua calda prima di essermi desaponato; ho bisogno di sapere, invece, che posso evocare montagne verdi e le corse di una bambina mentre mi rado davanti allo specchio, senza pormi il problema di apparire improvvisamente rincoglionito, senza sensi di colpa latenti.

Diciamola tutta: la bellezza ha bisogno della mediocrità per potersi manifestare al meglio. E la mediocrità oggi decisamente non manca, direi. Ma attenzione a questo giochino, non vorrei che elevassimo la mediocrità al livello di valore cui tendere, fenomeno non certo estraneo ai nostri tempi. Per me resta, e sempre resterà, soltanto come uno scalcinato muretto a secco sul quale salire, facendo attenzione a non ruzzolare irrimediabilmente giù, per poter alzare lo sguardo oltre l’orizzonte, ben sapendo che dietro ogni orizzonte ce n’è un altro ancora più lontano dove la bellezza attende solo che il nostro sguardo arrivi.   

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