Quella del viaggio è la dimensione che pervade completamente l’ultimo lavoro di Livio Romano, Il mare perché corre, romanzo edito da Fernandel. A cominciare dalla copertina, bellissima a mio parere, dove un lungo viadotto stradale varca la liquida distesa di un mare da sempre via privilegiata per l’ignoto. 

 

Viaggio qui rappresentato in tutte le possibili varianti: nello spazio, nel tempo, nell’animo di due naufraghi in balia delle loro personali tempeste. Viaggio rigeneratore in quanto rottura col passato e inizio di un nuovo modo di stare al mondo.
Si torna sempre diversi da un viaggio: nessuno torna quello di prima; che sia la vacanza estiva o l’avventurarsi nelle proprie storie irrisolte, nei propri casini e gineprai esistenziali. Da Kerouac in poi è ormai un dato acquisito, questo. Ma anche per questo scrivere un romanzo tipicamente on the road può dimostrarsi operazione irta di insidie se non si padroneggia l’arte di dare spessore a una storia che rischierebbe di sfuggire troppo presto dalle mani del lettore, senza lasciare traccia di sé. Livio Romano ha dimostrato di possedere quest’arte e di dominarla grazie a un puntuale lavoro di documentazione che ha dato sostanza storica ai fatti e una padronanza del linguaggio notevolissima, molto impegnata, suppongo, a sfuggire il personale cliché di scrittore dal tocco leggero e scoppiettante, di virtuoso della reinvenzione linguistica in chiave dialettale.

Operazione non del tutto riuscita, questa; per fortuna, starei per dire. Che dietro questa storia dalle tinte fosche ci sia la penna di Livio Romano l’affezionato lettore lo avverte, pur rendendo onore alla sua comunque apprezzabilissima virata verso uno stile più asciutto, meno ammiccante all’effetto speciale. Tutto scorre con naturalezza e senza quel compiaciuto e lungo soffermarsi sulle tipiche digressioni parallele alla storia che tanto aiutano, a volte, a dare consistenza numerica alle pagine. Non per niente è un romanzo on the road, veloce, che puoi leggere d’un fiato magari in treno, proprio mentre sei immerso nel tuo personale viaggio. 

La storia. Molto interessante, a mio parere, l’intreccio di due vicende personali molto diverse per la distanza generazionale tra i due protagonisti; l’uno, il Piero giovane, alla ricerca della svolta decisiva che lo aiuti a cambiare vita, a costo di impelagarsi in situazioni da codice penale per le quali non è tagliato, percorrendo maldestramente una scorciatoia per la ricchezza che immediatamente lo costringe a fronteggiare problemi più grandi di lui, come sfuggire a un’accusa di omicidio del quale non è peraltro responsabile, inseguito anche dai fantasmi di un rinato terrorismo rosso nel quale è convinto stia andando ad invischiarsi. Una fuga alla fine della quale c’è una bionda, un amore tutto da verificare. C’è sempre una donna alla fine, e tutto si fa per una donna, da Elena di Troia in poi. E una donna c’è anche all’origine del viaggio dell’altro Piero, quello anziano; ma si tratta, in questo caso, di una storia del passato. L’antico amore di un ragazzo salentino per una ebrea sfuggita ai lager nazisti e accolta in quel di Santa Maria al Bagno, storia di solidarietà non sufficientemente raccontata.

Un amore d’altri tempi, quando lui era capace di fare anche due volte al giorno, in bicicletta, quaranta chilometri tra andata e ritorno per poter stare qualche ora con lei. Altro che le agiatezze dei suv – alcova parcheggiati in fondo all’Aspide. Una storia spezzata dalle vicissitudini storiche della diaspora ebrea, con la quale il vecchio Piero non ha mai smesso di fare i conti nonostante decenni di ricerche infruttuose e la sopraggiunta consapevolezza che lei non c’è più. Un ottuagenario defraudato della felicità dal destino e che al destino chiede di reggergli il moccolo di una storia d’amore impossibile ma irrinunciabile. Due storie molto diverse che si intrecciano e coinvolgono reciprocamente, loro malgrado, i due protagonisti, gioco forza testimoni dei rispettivi fallimenti in un continuo alternarsi di eventi storici epocali e rigurgiti di anni di piombo, entrambi descritti con la puntigliosa precisione di un reportage, vissuti con nostalgico trasporto gli uni e con frenetica e quasi comica inquietudine gli altri dai rispettivi attori.

Sull’agrodolce finale della storia, lasciato al piacere della scoperta da parte del lettore, una considerazione prevale su tutte: solo chi ha intensamente amato e nulla più ha da chiedere per sé stesso è capace di gesti di generosità come quello di salvare l’amico, suo malgrado, dai suoi stessi errori e di regalargli, inaspettato, quel che sembrava ormai perso. Una riconciliazione tra generazioni perpetrata attraverso un gesto d’amore. Perché questa, a dispetto dell’atmosfera grigia che incombe sulle pagine, come lo stesso Livio ha ribadito, è solo, semplicemente, in fondo, una storia d’amore. 

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