Non ci sono più confini, cadute le distinzioni. E con loro anche le barriere. Oscar Pistorius ce l’ha fatta, ha coronato il suo sogno

 e quello di un mondo che ci piacerebbe vedere uguale anche quando il destino o la natura non ci sta: il quattrocentista sudafricano si è qualificato per i mondiali di atletica (in programmna a Daegu dal 27 di agosto). Correrà con i normodotati, primo nella storia a farlo, lui che al posto delle gambe ha altrettante protesi. Ha divorato i 400 metri in 45”07, la sua miglior prestazione di sempre, al di sotto di quel 45”25, il tempo necessario per essere come tutti gli altri. La chiave per il suo paradiso. Ventiquattro anni, nato con una malformazione (senza i peroni e con i piedi straziati da un atroce scherzo della natura) ha perso le gambe a undici anni, ma non ha mai smesso di fare sport e di pensare a una vita come quella degli altri.

La sua salvezza si chiama fibra di carbonio, il materiale che ha forgiato le protesi utilizzate per correre. Si chiamano cheetah: sono le sue inseparabili amiche. Compatito nelle prime corse, ascoltato perché diversamente non si poteva fare, quel ragazzone sudafricano conteneva nel suo fisico così tanta esplosività da non poter essere ignorata né cancellata. Sboccia alle Paralimpiadi di Atene nel 2004, vince un paio di medaglie, ma lo notano in pochi.

Lui ha già deciso la sua missione: correre con quelli più fortunati di lui. Anzi, correre con quelli come lui. Raggiungerli: Oscar si sente normale, alla sfortuna non ha mai creduto, la tragedia è il passato remoto. La sua è una vita coniugata al futuro. Nel 2005, il primo assalto alla Iaaf, la federazione mondiale dell’atletica: «Voglio correre le Olimpiadi di Pechino con i normodotati».

Impreparati, i padroni dell’atletica si guardano in faccia, un punto di domanda che non può avere una risposta se non negativa: «Un atleta che utilizzi queste protesi ha un vantaggio meccanico dimostrabile (più del 30 per cento) se confrontato con quelli che non le usano». Burocrazia. Materiale buono per prendere tempo e per mettere spalle al muro il sudafricano. Che, allenato sui 400, comincia la sua maratona. Carte, studi di dinamica applicata all’atletica, forze uguali e contrarie. Non tutti sono d’accordo, quelle leve sembrano molle, assomiglia a uno dei Fantastici 4, ma non insegue i cattivi. Lui insegue un sogno. Nel luglio 2007 corre a Roma, Stadio Olimpico, e lo fa con i normodotati, arriva secondo in una gara minore. Il rischio è che diventi fenomeno da baraccone, lui lo corre fino in fondo. Altra sfida. Il 16 maggio 2008 la sentenza che gli cambia la vita: il Tas, il tribunale arbitrale dello sport, gli dà ragione.

Le perizie dei suoi legali mettono ko i pregiudizi della Iaaf: premio Oscar. Il tempo però non arriva, a Pechino ci va ma tra i paralimpici. «Non sono bionico, ma solo un uomo». La lunga rincorsa è cominciata quell’anno, Londra è ancora da conquistare, ma in mezzo ci sono i Mondiali di Daegu. Nessuno sconto, un minimo vero da raggiungere e zero concessioni all’emozione. Nemmeno dal Sudafrica che non regala visti speciali a Oscar, il muro è quel 45”25: correre i 400 metri in un tempo inferiore è il solo modo per Pistorius di vedersela con i grandi.

In fondo, una cosa normale. Come per tutti gli atleti: questo lui voleva, questo lui ha ottenuto. Non a caso ha scelto l’Italia per abbattere quella barriera. Roma l’aveva adottato in quel 2007, Milano gli ha sempre voluto bene. Un tentativo, fallito domenica a Padova: non gli restava che un ultimo colpo da sparare. L’ha fatto ieri sera a Lignano Sabbiadoro. 45”07: gli occhi fissi sul crono che ha cambiato la sua vita. E forse non solo la sua. «Piacere sono Oscar Pistorius. Da ieri sera uguale agli altri». (LaStampa)

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