Ebbene sì: questo sostantivo non esiste, l’ho inventato di sana pianta due secondi prima di scriverlo, ma era necessario. Si tratta della sintesi di due parole distinte: matrimonio e musicista. In pratica intendo indicare con questo neologismo (che sono disposto a cedere senza diritti di copyright al Devoto Oli o alla Treccani in cambio di un approvvigionamento vita natural durante di vocabolari di Italiano aggiornati) quel musicista più o meno professionista che svolge una parte della sua attività nei saloni adibiti ai ricevimenti dei matrimoni.
Circostanza che nella migliore delle ipotesi è occasionale, utile a dare consistenza numerica e finanziaria a tournèe sempre più scarne, ma nella peggiore – e francamente da non augurare al peggior nemico – rappresenta la parte preponderante dell’attività di questo particolare tipo di musicista, che potremmo anche chiamare musicista matrimoniale. Il quale non può sottrarsi alle devastanti conseguenze che una reiterata attività di questo genere provoca, qualunque sia il livello di preparazione di base sul quale possa fare affidamento. Suonare ai matrimoni (ai relativi ricevimenti, intendo) non è cosa che si possa fare senza pagare un prezzo altissimo in termini di compromessi con la propria dignità di uomo e di musicista. Ne ho le prove.
Pensate che tirare in ballo la dignità sia un’esagerazione? Niente affatto. Sia l’uomo che il musicista sono messi a dura prova durante queste lunghissime maratone gastronomiche in costume.
Non mi intrattengo più di tanto sulla ben nota fenomenologia, se non per accennare brevemente all’enorme spreco di risorse finanziarie alle quali le famiglie si sottopongono di buon grado per offrire un “prodotto” che inevitabilmente finirà per scontentare gli incontentabili a prescindere; né mi soffermo sulla ormai mitica figura del panciuto parente alticcio di mezza età spinta (di solito uno zio) con camicia sbragata e aperta sul villoso petto, ove una robusta catena d’oro sostiene un sano timor di dio sotto forma di croce aurea probabilmente rinvenuta nello stesso forziere dove era custodito il Sacro Graal; parente che darà sfoggio di un insospettabile afflato poetico proponendo brindisi dalle rime negroamare e malvasiache e che pretenderà di aprire le danze avvolgendo la sposa in un sudario di afrori ascellari misti a miasmi alcolici da stendere un bue. Per non parlare dell’immancabile gruppetto di amici che costringeranno gli sposi al consueto repertorio di scenette di vita famigliare a ruoli invertiti (ai quali ruoli in fondo si crede) e cercheranno di mettere in imbarazzo la sposa con riferimenti alla sfera sessuale a mezzo frutta vagamente antropomorfa, non prima di aver reciso il costoso orpello di seta pendente dal collo dello sposo, subliminale allusione al possibile analogo destino di altro orpello più bassolocato in caso di comportamento meno che irreprensibile in tema di fedeltà coniugale (Sindrome di Bobbit).
Sono tutte circostanze ampiamente note. Meno noto è invece il travaglio cui è sottoposto il musicista ingaggiato per sonorizzare la festa, che sia da solo o in compagnia di una band, di solito ricoverato presso un tavolo in posizione defilata da condividere coi fotografi, ove consumare, nelle pause concesse, un pranzo nuziale immancabilmente freddo. Non a caso i musicisti da matrimonio incalliti, i matricisti propriamente detti, sono quasi sempre colitici cronici in evidente sovrappeso.
Sul piano squisitamente musicale, l’esibizione da “sposalizio” è quanto di più complicato da gestire. Non mancano gli inguaribili ottimisti convinti di poter approfittare del lavoro di forchetta dei commensali per inserire di soppiatto un James Taylor d’annata o un Pino Daniele prima maniera, sperando che la mozione passi. Espediente necessario a controbilanciare sul piano della dignità musicale le inevitabili successive ricadute sul vasto repertorio nazionalpopolare. Il quale, sebbene in ambiti diversi potrebbe anche avere un suo perché, assume qui un che di pecoreccio e volgare, nella bovina indifferenza di centinaia di mandibole ruminanti al servizio di gargarozzi lubrificati da cascate di “quello buono”, bisolfito esente, riesumato per l’occasione da decenni di riposo in cantina. Il quale, già dopo il secondo o terzo bicchiere, stana irrimediabilmente le sensibilità musicali latenti nelle dure scorze dei commensali, disponendoli alla nobile arte del canto.
E quale migliore occasione della presenza di un microfono per rinfacciare al mondo la perdita di talenti musicali così puri? È qui che il malcapitato musico comincia a tremare. Finché si tratta di mettere mano al repertorio d’occasione di polke – mazurche – tanghi – valzer – balli di gruppo e divertentismo vario, mandando a spasso i commensali sul sempre puntuale Trenino di Disco Samba, si può sempre ascrivere il tutto alla voce “inconveniente del mestiere” tipica di ogni attività umana di tipo lavorativo. Ma quando il commensale alticcio si impadronisce del microfono, che in quel momento cessa di appartenere al legittimo proprietario diventando patrimonio dell’umanità, un gelido sudore percorre la schiena del matricista, consapevole di aver imboccato ancora una volta la china che lo porterà all’abbruttimento di una condizione di sostanziale schiavitù musicale. Non esiste angolo inesplorato dello sconfinato scibile canzonettistico italiota che non possa essere rievocato a gran voce dal novello cantaro microfonato, il quale manifesta platealmente la sua esecrazione all’indirizzo del povero musico qualora qualche richiesta risulti inevasa. E così il moderno immaginario karaokista dilaga per la sala sotto forma di migliori anni della nostra vita, di signore che dicono di non essere signore, di malefemmine, di emozioni che non hanno voce, di blu dipinti di blu e di tutto quanto la furia iconoclasta di questi Cantori di Norimberga (nel senso del Processo) sia in grado di distruggere.
Il povero matricista non ha scampo in questo frangente: per essere certo di non incorrere nel rischio di inaspettati “sconti” in sede di riscossione del compenso pattuito, deve sottostare supinamente alle più becere richieste e farsi sputacchiare a dovere il microfono ultimo grido dall’umanità manducante sopra detta. Deve soprattutto rassegnarsi a fare la figura dell’incompetente ogni volta che sarà costretto a dire all’ottuagenaria matrona di turno che non ricorda la musica di Binario o le parole di Granada. Non conoscere il Reuccio … roba da giovani d’oggi!
Questa, e molto altro ancora, è dunque la vita del matricista, il musicista da matrimonio, nella cui categoria mi rifiuto comunque di annoverare i suonatori di dischetto e di diavolerie elettroniche, che per quanto mi riguarda meriterebbero ben altre angherie, ma ne sono immuni dal momento che il loro repertorio ha l’unica limitazione nella capacità in gigabyte del loro hard disk. C’è un limite anche alla mistificazione. Il matricista è pur sempre una figura eroica degna di rispetto, non fosse altro che per la capacità di sopportazione del genere umano che dimostra.
Non è raro, tuttavia, che anche per lui vi sia qualche momento di meritata gratificazione, soprattutto quando riesce a spuntare un cachet sufficiente a portare con sé una band al completo. È in quel caso che, come niente, può succedergli di sentire una di quelle frasi che danno un senso agli affanni quotidiani e restituiscono la voglia di continuare un mestiere così difficile: “Iti spicciatu cu faciti rumore? Ddhru Diu ca no bbi ete!” (trad. Siete dunque giunti al termine di questa esibizione da noi così gradita? Che il Signore vegli sempre su di voi!).
Bella la vita del musicista matrimoniale, niente da dire!