L’articolo 8 del decreto di Ferragosto ha scatenato l’ira della Cgil, della Fiom e del Pd per due ragioni: primo, perché dà validità erga omnes ai contratti aziendali stipulati prima dell’accordo fra Confindustria e sindacati maggiormente rappresentativi a livello nazionale,
togliendo l’arma dei ricorsi a pioggia al tribunale del lavoro da parte di iscritti a Fiom-Cgil per invalidare i contratti conclusi a Mirafiori e a Grugliasco da Fiat auto; secondo, perché i contratti aziendali potranno modificare non solo le clausole dei contratti nazionali, ma anche l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che riguarda i licenziamenti per giusta causa e fondati motivi.
In mancanza di giusta causa o di fondati motivi, secondo la disciplina dell’articolo 18, l’impresa non può licenziare i lavoratori dipendenti che hanno un contratto a tempo indeterminato. In alternativa dà loro una una cospicua indennità (15 mensilità). Secondo l’articolo 8 invece, in una serie di casi abbastanza ampia, il contatto aziendale può stabilire, “in deroga” all’articolo 18, che l’impresa può licenziare uno o più lavoratori, se c’è la giusta causa, a prescindere dal fatto che ci siano o meno fondati motivi per farlo, purché versi una sostanziosa indennità di licenziamento. E’ sopratutto questa seconda clausola, relativa all’articolo 18, che fa infuriare Cgil e Pd. E pare che il segretario del Pd Bersani abbia cercato di indurre il ministro Tremonti a togliere questa parte dell’articolo 8 del decret .
Dal canto suo il senatore Nicola Rossi indipendente di sinistra e l’onorevole Pietro Ichino del Pd hanno presentato un emendamento che abroga l’intero articolo 8 sostituendolo con il contratto nazionale unico di lavoro, basato sulla flex security, che comporta il diritto a licenziare, con congrua indennità di licenziamento a carico dell’impresa e congrua indennità di disoccupazione a carico dello Stato. Il progetto Ichino non abolisce solo l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, mira anche ad annullare l’intera riforma della legge Biagi, perché ci sarà solo un contratto di lavoro nazionale e spetterà solo alla Confindustria, alle altre organizzazione di imprese e ai sindacati rappresentativi nazionali la possibilità di stabilire deroghe al contratto unico nazionale, applicabili in sede locale e aziendale. L’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, per la verità, è stato deformato dalla giurisprudenza, che ne ha stravolto interamente lo spirito e ne ha calpestato l’interpretazione logica, stabilendo non già che bastano giustificati motivi, anche in assenza di giusta causa, per effettuare i licenziamenti di lavoratori, ma che per la licenziabilità occorrono sia la giusta causa, sia l’esistenza di ulteriori fondati motivi.
Inoltre, e soprattutto, si è data della giusta causa un’interpretazione restrittiva che sarebbe paradossale, se non si tenesse presente che, secondo la “sinistra giuridica”, un movimento culturale della scienza giuridica che ha vastissimo seguito nelle università e nella magistratura, il diritto può essere interpretato in modo evolutivo, per rispondere alle esigenze della società. Così si è ritenuto che non vi sia una giusta causa o un fondato motivo per licenziare un lavoratore qualora egli abbia rubato, se il furto non è avvenuto nel luogo di lavoro in quanto il rapporto di fiducia riguarda ciò che il lavoratore fa nel luogo di lavoro, non fuori. Inoltre se la sentenza che condanna un lavoratore per furto sul luogo di lavoro è solo di primo grado o di appello, mancherebbe la giusta causa in quanto la condanna non è ancora definitiva. Non importa se esistono prove del furto, prevale la questione formale della validità definitiva della sentenza. E’ così possibile che fra i lavoratori addetti alla consegna dei bagagli degli aerei di un aeroporto ci siano degli addetti condannati per furto di valigie, che sono in attesa della sentenza definitiva di condanna.
Anche il ripetuto assenteismo non è stato considerato come giusta causa o fondato motivo per il licenziamento. In queste condizioni, è evidente che la possibilità di articolare, nei contratti collettivi aziendali, le ipotesi di licenziamento per giusta causa con indennizzo è di grande importanza, soprattutto in relazione a problemi di crisi aziendale, che vanno fronteggiate chiedendo ai lavoratori di tenere comportamenti corretti. Fincantieri, ad esempio, ha una bassa produttività a causa dell’elevato tasso di assenteismo che ha luogo soprattutto di venerdì e lunedì. La società, che è in crisi, potrebbe essere competitiva, dati gli elevati know-how che possiede, se potesse ridurre la patologia dell’assenteismo.
Il contratto aziendale che comporta la cosidetta deroga all’articolo 18, che è in realtà un accordo dettagliato sulla sua interpretazione, potrebbe sanare situazioni come questa. Esso, come è noto, per essere valido deve essere approvato dalla maggioranza delle organizzazioni sindacali rappresentate nell’azienda o comunque per referendum, dalla maggioranza degli addetti. L’opposizione a questa norma dell’articolo 8 da parte di Cgil e del Pd implica di considerare il contratti collettivo di lavoro nazionale come un contratto di natura pubblicistica, valido erga omnes, nei riguardi di tutti i lavoratori, calpestando il diritto dei lavoratori delle singole imprese, di adeguare il contratto collettivo alla realtà aziendale, al fine di passare da un regime di sostanziale monopolio bilaterale nazionale del mercato del lavoro a un sistema flessibile, basato sulla autonomia decisionale. Lo stesso ragionamento vale per la proposta Ichino-Rossi, che vuole sostituire il contratto unico nazionale che prevede il diritto di licenziare, con un’abrogazione complessiva dell’articolo 18, alla varietà dei contratti di lavoro e alla autonomia contrattuale aziendale. Anche in questo caso prevale l’idea che il contratto di lavoro sia essenzialmente un contratto di diritto pubblico, non un contratto di diritto privato, con esercizio dell’autonomia contrattuale.
L’economia sociale di mercato neo liberale non si fonda sulla anarchia del mercato del lavoro e in genere del processo di concorrenza, ma stabilisce la massima autonomia contrattuale in una società di diritto privato, all’interno di regole del gioco che assicurano la libertà di scelta e impediscono la sopraffazione di una parte sull’altra. Bisogna stabilire se si vuole promuovere la crescita dell’occupazione, del tenore di vita dei lavoratori e del Pil (mediante la formula dell’economia sociale di mercato, che postula una economia di concorrenza in una società di diritto privato), oppure se si vuole persistere nella dicotomia fra libertà come lassez faire e regolamentazione come perdita dell’autonomia in virtù del contratto di diritto pubblico valido erga omnes. E non è un caso che su questa seconda linea si trovino a militare insieme sia i leader del sindacato dirigista centralista, ostile visceralmente al libero mercato, sia i fautori di un’economia di mercato governata dalla tecnocrazia illuminata colbertista che stabilisce, al posto nostro, cosa dobbiamo scegliere per avere una società migliore.(tratto da l’Occidentale)