Pantaleo De Simone racconta per L’espresso dei sogni l’evento organizzato dalla associazione #dirittiasud. Uno sguardo appassionato ad una tematica, quella dei migranti, che divide cuori e menti. Mentre mi incamminavo verso la masseria Boncuri, lungo la strada sterrata contornata da fiammelle, venivo chiamato da una voce maschile proveniente da un’auto che sostava alle mie spalle: “Ma qui fanno un presepe?” diceva l’uomo; uno degli amici che era con me quella sera risponde che si trattava di un’iniziativa per i migranti. Di quella macchina rimase ben presto solo la polvere lasciata dalle ruote che facevano ritorno verso la strada principale.

Non rimasi stupito dalla cosa e pensai che, del resto, il 27 dicembre una famiglia potesse essere più attratta dalla rappresentazione della natività piuttosto che dalla visione di immigrati, figure senza volto che si incrociano sul ciglio della strada nei caldi pomeriggi d’estate.Ripresi a camminare e, avvicinandomi all’entrata della masseria, sentivo sempre più chiara la musica che proveniva dal cortile interno: era un ritmo reggae, percepivo le vibrazioni dei bassi sotto i miei piedi, e più mi avvicinavo e più le melodie portavano alla mente ricordi di estati passate ad ascoltare questa musica. Arrivato all’ingresso, un alto portale in pietra dava adito ad un piccolo antro rettangolare da cui si poteva accedere al cortile; sulla destra, una porta con appeso uno striscione su cui era scritto: “Diritti a Sud”.

 

Lo lessi distrattamente, più attratto da quello che mi aspettava all’esterno e senza ancora capire il senso di quella serata alla masseria, che avrebbe poi rivelato emozioni e riflessioni profonde.Il cortile brulicava di gente, a destra piccoli mercatini mentre a sinistra si potevano scorgere tavoli con bevande e piatti caldi. Nell’aria l’odore della frittura che si mescolava a quello di spezie orientali. Non era il solito mercatino di natale o, per lo meno, quello che mi immaginavo per quella sera: le pettule erano accostate al cous cous e al riso con pollo e spezie; il vino rosso al the africano. “A mio nonno verrebbe un infarto” pensai.

Ma è bastato sollevare lo sguardo dai tavoli imbanditi per accorgermi che, dietro al cibo e le bevande, c’erano loro, i migranti. Quelle che per me, fino a quel momento, erano state solo delle sagome sulla carreggiata di una strada, dei fantasmi senza volto né nome, ora avevano occhi che luccicavano, bocche che sorridevano e mani che applaudivano. Ed ecco che, guardando quella umanità per me prima anonima, mi appariva il senso di quella serata: i lavoratori della terra, gli sfruttati, i nuovi schiavi, erano li con un volto e con un nome, e ballavano e ridevano.E allora capii che masseria Boncuri aveva molto da dirmi e mostrarmi quella sera: accanto al tavolo dove venivano servite le pettule vedo una porta, sulla cui cornice esterna dipinta di verde spiccava una scritta araba color porpora; accanto la traduzione italiana: “moschea”.

L’aspetto spartano di quella porta la rendeva quasi solenne, un senso del sacro che si accosta all’essenzialità della forma. Continuando a guardarmi attorno, mi accorsi che i mercatini offrivano più di quello che mi immaginavo: prodotti dell’artigianato locale, ma soprattutto prodotti della terra; quella terra che non è più fonte di sfruttamento ma di auto-sostentamento. Sull’etichetta delle bottiglie di pomodoro non il nome delle multinazionali, ma i volti di chi quella terra l’aveva coltivata, su cui aveva sudato e su cui aveva riversato le sue speranze.

Quelle salse erano il prodotto di un sogno e di un progetto chiamato “SfruttaZero”, il risultato dell’impegno di studenti, contadini, precari, disoccupati e migranti nella lotta al caporalato e allo sfruttamento, di un lavoro basato sul rispetto della persona e del lavoratore.

Emozionato e colpito da una realtà che conoscevo poco e che quella sera mi si era presentata così inaspettatamente, dopo aver girato spasmodicamente tra le varie esposizioni che contornavano il lato destro del cortile, mi ritrovai nuovamente di fronte al portale che si affaccia nell’antro della masseria. Guardando al suo interno, scorsi lo stesso striscione “Diritti a Sud”, che prima il mio sguardo distratto aveva solo sfiorato. Lo striscione preparava l’ingresso ad una grande stanza che aveva sulle pareti le foto che ritraevano le realtà delle nostre campagne salentine, i volti di coloro che in quelle campagne avevano cercato il riscatto.

Accanto alle foto, alcuni cartelloni indicavano le regole della convivenza per gli abitanti della masseria: orari, turni di pulizia e regole per la sicurezza erano riportare in italiano, arabo e inglese. In fondo alla stanza, alcune poltrone erano rivolte su una piccola televisione che poggiava sul pavimento.Nonostante la semplicità dell’arredamento quella stanza rappresentava il tentativo di ricostituire una vita normale, di creare una comunità fatta di regole e condivisione e non più abbandonata a sé stessa. Il cartellone all’ingresso riassumeva perfettamente la bellezza di quello che stava accadendo in quella masseria: “Qui vivono 16 persone. Regole per vivere insieme”. Ritornai nel cortile a bere del vino e assaggiare qualche piatto.

La serata mi appariva sotto una luce nuova, etnie di verse unificate dalla musica, dal cibo e dalla parola. I mercatini e la cucina creavano un vortice senza distinzione, un’unica anima era presente nella masseria.In questo disordine di voci e luci, improvvisamente una melodia sembrò prendere il sopravvento e la voce iniziò a cantare: “From the bible to the Coran/ revelation in jerusalem/ shalom salamalekoum/ you can see christians, jews, and muslins living together and praying Amen/ let’s gives thanks and praises”. Al suono di questa canzone, vidi un ragazzo di colore poggiare le mani sul suo volto e poi al cielo. Gerusalemme, la terra promessa.

Ma qual è la terra promessa per questi uomini, quale il loro futuro? Strappati alla loro Gerusalemme, non resta che cantare e porre le mani al cielo, assieme a loro.

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