“Il modo migliore per avere la coscienza pulita è di non usarla mai”. Credo che questo aforisma trasudante cinismo fosse di un noto personaggio politico che ha fatto la storia di oltre sessant’anni della democrazia italiana e che non nomino per non accostare il suo nome a quello di chi nominerò più avanti; anche se non fosse suo è comunque facilmente collegabile alla sua figura. Già, l’utilizzo logora, non c’è dubbio; il non utilizzo preserva.

 

Applicando per un attimo questa logica al muscolo cardiaco, vien da riflettere su come alcune persone siano maledettamente esposte al rischio usura per la loro spontanea attitudine a fare le cose con “tutto il cuore”. È il problema delle persone troppo generose, quelle che non hanno paura di mettere a nudo l’anima e di lanciare il cuore oltre l’ostacolo, anche se questo può comportare costi da pagare in prima persona.

Sono quelle persone che poi smentiscono l’aforisma dell’ineffabile onorevole, dimostrando col loro esempio che la coscienza non si sporca se usata bene e se dietro di essa c’è un cuore che spinge. È piuttosto quest’ultimo ad uscirne ammaccato, qualche volta, per essersi dato troppo. Questo cuore troppo grande, alla fine, finisce per non reggere il sovraccarico emotivo e viene meno alla sua funzione primaria, quella di garantire la circolazione dell’indispensabile linfa vitale al corpo che lo ospita. È proprio quello che è successo a Pino Daniele.

Al di là di ogni evidenza medico-patologica, sulla quale non ho le competenze per potermi esprimere, mi piace pensare che il suo cuore non fosse solo una sofisticatissima e delicata pompa biologica, ma qualcosa di più. Il cuore ha molto a che vedere con le emozioni, ce ne siamo accorti tutti quando lo abbiamo sentito battere forte e veloce sotto lo sterno ogni volta che abbiamo aspettato il primo bacio dal nostro primo amore, oppure quando abbiamo affrontato l’esame di maturità o il primo esame universitario, o quando abbiamo visto nascere il nostro primo figlio, quindi è impossibile non collegarlo al flusso delle emozioni.

Il cuore di un artista, poi, è ancora più coinvolto, perché le emozioni non sono solo in entrata, sono anche in uscita. Il flusso emotivo è bidirezionale, quindi il lavoro è doppio. Il cuore di un artista prende emozioni dall’esterno, le rielabora e le restituisce dandogli la forma dell’arte. E nessuna forma d’arte più della musica ha il pregio-difetto di avere un riscontro immediato del flusso di emozioni di ritorno, nessun artista più del musicista vive in tempo reale gli effetti di questo feedback che può addirittura influenzare la stessa qualità della creazione artistica.

La musica di Pino Daniele ha molto a che fare con l’emozione e con tutti i suoi effetti collaterali. Il suo essere sempre stato Nero a metà non era esterofilia o infatuazione per culture musicali estranee alla tradizione. Egli era pienamente dentro la tradizione, ma la filtrava attraverso la sua sensibilità di musicista aperto alle influenze afroamericane, in particolare quelle relative al genere maggiormente legato, nell’immaginario musicale, agli intimi moti dell’anima: il Blues. Pino Daniele è stato il primo a capire quanta affinità ci fosse tra l’anima partenopea e il tipico mood dei bluesman afroamericani, così non ha esitato ad applicare lo slang napoletano agli stilemi tipici della musica di New Orleans. Il risultato è stato un qualcosa che ha cambiato per sempre la nostra concezione della musica napoletana, sottraendola all’inevitabilità dello stigma neomelodico.

Ma non starò certo a dilungarmi sull’importanza della sua figura nel panorama musicale italiano, questo è un compito che spetta ai musicologi; quello che invece mi interessa è cercare di capire quanta parte abbia avuto la sua musica nella formazione di una generazione alla quale appartengo. Se penso alle interminabili serate passate a far girare un 33 giri su un piatto, io e il mio amico dei tempi felici Stefano, ai nostri tentativi d’imitazione, chitarre alla mano, e a quanto quel linguaggio sia diventato “nostro”; ma soprattutto se penso a quanto quello slang anglo-napoletano sia diventato patrimonio comune di tutti gli italiani, dalle Alpi alle Madonie, allora non ho dubbi sull’importanza dell’imprinting ricevuto e sul miracolo della reinvenzione di una tradizione in chiave moderna e cosmopolita che Pino Daniele ha operato. Basta ascoltare canzoni come Quanno chiove per capire come egli abbia preso Roberto Murolo e l’abbia proiettato nell’attualità, arricchendo il suo lessico con quei vocalizzi che allontanano definitivamente ogni residua tentazione di attualizzazione in chiave neomelodica.

Sarebbe ingiusto non riconoscere, però, il fatto che Pino Daniele abbia potuto fare quello che ha fatto anche grazie a un retroterra culturale e musicale venuto alla ribalta fin dai primi Settanta grazie a personaggi come James Senese e i suoi Napoli Centrale, nei quali militò come bassista, o come Tullio De Piscopo, Tony Esposito, Gigi De Rienzo, Ernesto Vitolo e tanti altri ancora, uno straordinario gruppo di musicisti che rappresentano il meglio che l’anima profondamente musicale di Napoli abbia mai prodotto. Musicisti che hanno insegnato a tutti il significato del fare musica con il cuore.

Questo grande cuore, che tanto ci ha dato, alla fine l’ha tradito accomunandolo anche nel destino a un altro grande artista col quale condivideva la stessa anima da Mascalzone latino, da scugnizzo cosmopolita, il grande Massimo Troisi. Mi piace immaginare che si siano incontrati dopo vent’anni e che si siano dette parole come queste:

Massimo: “Guaglio’, puru tu acca’? ma chi t‘ha fatta fa’ ‘e venimm’a trua’?”

Pino: “Tu ‘o ssaje comm’è fatt’ ‘o core nuostr Massimi’, chillo decide e parte e nun ce sta niente ‘a fa’!”

Massimo: “Eh, ‘o ssacc, nun m’o dicere a me’ ca n’aggia fatt’ ‘na malatia, ma mo’ ca puru tu staje acca’ n’amma diverti’! pija ‘a chitarra, va’!”

Pino: “Me n’aggia purtata una ch’ ‘e corde ‘e nailòn, comm’ piacev’ a te! Te ricuord’?: Tu dimmi quando quando…”

Massimo: “Bella chella là, ma sona zitto zitto, pe’ carità: non vorrei ca ce sentisse Gianni Minà e vulisse veni’ a intervistajece pure acca’!”

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