Due scarpe appese ad un filo elettrico, buttate lì per goliardia sono solo due oggetti inutili, consunti, magari fetenti. Il passante alza la testa e vede due oggetti ormai arrivati alla fine di un ciclo, legati in maniera indissolubile, come gemelli siamesi, pencolanti alla mercè delle intemperie, che resistono alle offese del tempo come sentinelle che attendono l’alba di un nuovo giorno.

Sempre allo stesso posto, come impettite, orgogliose del loro passato lavorativo, nell’ attesa, sicuramente vana di un nuovo fruitore. Ma è impossibile afferrarle, come due Orate smaliziate che giammai arrivano a tiro del sub in attesa, sul fondo.

 

 

Un filo elettrico tra due pali che non si sa da quale dei due parte e dove finisce, che diventa un palcoscenico, sotto un cielo che fa da riflettore di giorno e custode di notte a reggere due semplici scarpe usate che fanno bella mostra di sè, con gli automobilisti a fare da spettatori involontari e giocoforza a commentare, a modo proprio, condizionati dallo stato d’animo del momento, dalla sensibilità o indifferenza di ognuno. Come ciascuno di noi vuole, interpreta una immagine banale ma che tale forse, per qualcuno non è, come Fausto Laneve che di una monelleria sa trarne profitto umano, bloccandone per sempre, con una foto quella staticità fredda all’apparenza, un nonsenso che solo chi partorisce emozioni coglie.

 

Un fotografo in fondo, non è altro che un pittore pigro.

 

Due scarpe appese ad un filo elettrico, quanti sentimenti possono scatenare, uno scatto surreale che solletica non le coscienze, (ogni tanto fa bene congelare la nostra rabbia) per sorridere, stavolta, di una barzelletta sospesa: due giullari legati insieme ed esposti su una gogna sottile quasi come una lama di coltello. Il tempo, il vento e il sole faranno il resto, una tortura del XXI secolo: quando tutto si assottiglia la forza di gravità darà loro il colpo di grazia facendole cadere sul bitume e le auto di passaggio faranno il resto, arrotandole bel bene, distruggendole e, con loro il ricordo di quell’assurdo teatrino che le ha accompagnate; esattamente come due guitti di terz’ordine

che giunti alla fine di una miserabile carriera a causa del carrozzone scassato, decidono di suonare l’organetto agli angoli delle strade, come i “parcheggiatori” napoletani di età Borbonica che incantavano solo bambini e ignoranti con le loro rudimentali attrezzature musicali.

Surreale ma non tanto, in fondo potrebbe essere la metafora della vita, ingabbiata in una malinconica e pur intensa foto, una lapide virtuale che si può associare a qualunque ricordo o persona o avvenimento. Una foto che è anche una sentenza quindi:

quando uno vuole la legge, osservandola e poi chiudendo gli occhi ciascuno potrà farla propria, col carico emozionale che il Fotografo avrà voluto trasmettere, ingannando il tempo perchè in questo modo rimarrà indelebile, facendo sorridere al suo ricordo.

Fotografo pigro: uno sguardo solo, come da una carrozza di un treno ad una stazione di passaggio.

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