Archiviata l’ennesima bella iniziativa di A Levante presso la Masseria Doganieri a Galatone: frisellata sotto le stelle con osservazioni astronomiche e disturbatori dei padiglioni auricolari, tali Baccassino e Chirivì in un inedito e improvvisaticcio duo, porto a conoscenza delle moltitudini l’ennesimo mio prurito letterario partorito per l’occasione. Ancora una volta ho perso l’occasione per tacere, pazienza…

 

 

“… e quindi uscimmo a riveder le stelle”. È così che Dante chiude le tre cantiche della Divina Commedia, evocando le stelle. Sarà un caso? Direi di no. C’è qualcosa di più profondamente affascinante, di definitivo, di un cielo stellato in una notte d’estate priva di luna? Da sempre l’uomo ne subisce la fascinazione ogni volta che il sole depone dietro l’orizzonte il luminoso sudario di luce col quale ci copre durante il giorno. E dire che ci copre di luce non è sbagliato, non è facile metafora, perché è proprio la luce solare che ci nasconde quello sterminato universo che è sempre lì ma è invisibile alla luce del giorno. La luce può quindi oscurare, sembra un controsenso. Un po’ come quando una moglie affetta da senso di colpa colma il marito di attenzioni e lo stordisce col delirio della parola oscurandogli l’enorme danno arrecato al di lui suv ultimo modello. Riusciamo a capire di essere parte di un cosmo sconfinato solo quando il buio ci avvolge e ci permette la visione del firmamento. Del resto che il buio faciliti la visione delle stelle è facilmente riscontrabile quando, brancolandoci dentro, becchiamo uno spigolo col ginocchio e sacramentiamo con cristiano trasporto.

Quella delle stelle è una faccenda piuttosto complicata, però. Per secoli i navigatori hanno sfruttato le costellazioni per calcolare le rotte senza rendersi conto che in realtà le costellazioni non esistono, essendo semplicemente una costruzione geometrica molto simile alle figure ottenute unendo i puntini numerati sulla Settimana Enigmistica. Quei puntini luminosi sono in realtà collocati su piani molto distanti tra di loro, quindi completamente indipendenti l’uno dall’altro, ed è solo la mancanza di prospettiva che ce li fa apparire come collocati su un’unica grande tavolozza nera dove un sommo pittore li ha posizionati con apparente rapporto di reciprocità che si esprime in figure ravvisabili. Un po’ come quando uno mette insieme un certo numero di idee sulla vita e sulle relazioni umane e crede di ravvisarvi un’ideologia che si esprime in una costellazione sotto forma di partito politico. Per un po’ ci crede e si fa orientare, finché non scopre che certe idee non c’entrano niente l’una con l’altra e qualche volta vengono messe assieme forzatamente per poi generare confusione e crisi d’identità. Può succedere ed è già successo. Se non altro le costellazioni astronomiche hanno il vantaggio di mantenersi costanti nel tempo o di variare in tempi lunghissimi, da noi non percorribili, quindi sono estremamente affidabili; quelle politiche, invece, hanno una velocità di variazione e riconfigurazione infinitamente più grande. Forse dipende dal numero di stelle in gioco, migliaia di miliardi in un caso, contate sulle dita di una mano nell’altro.

La cosa sconcertante, quando osserviamo un cielo stellato, è che ciò che guardiamo in quell’istante non può mai essere una rappresentazione dell’entità temporale effimera che chiamiamo presente, cioè non possiamo dire che ciò che vediamo sia una fotografia dello stato attuale dell’universo, dal momento che la luce impiega del tempo per arrivare a noi, da poco più di un secondo nel caso della Luna, agli otto minuti e mezzo nel caso del Sole, ai milioni di anni nel caso delle stelle più lontane, quindi l’immagine che noi abbiamo di ogni oggetto celeste che vediamo è l’immagine che quell’oggetto aveva nel momento in cui la sua luce, diretta o riflessa, si è messa in viaggio verso di noi, arrivando con tempi proporzionali alla distanza che ci divide. In realtà, quindi, quando guardiamo il cielo noi guardiamo il passato, un passato molto diverso a seconda di quale oggetto guardiamo in quel momento. Eppure la luce viaggia piuttosto velocemente, direi, incurante degli autovelox, anche se non tanto velocemente da poter competere con il colpo di clacson alle tue spalle non appena scatta il verde al semaforo. Ma quelli sono fenomeni metafisici, inspiegabili con la scienza. Mi viene da pensare che a volte è così anche nel nostro quotidiano. Infatti, quando la consorte ti parla di qualcosa al presente, non puoi mai essere sicuro che non si riferisca a un fatto del passato che tu hai completamente dimenticato, ma del quale lei ti chiede conto come se fosse accaduto il giorno prima, e si adira se tu non percepisci al volo lo scarto spazio – temporale organizzando una risposta plausibile all’istante.

Ma la luce ha altre caratteristiche stupefacenti, tra le quali una lascia sconcertati noi comuni mortali avvezzi più all’educazione fisica che alla fisica propriamente detta: non ha velocità relativa. Cioè, sia che la fonte si avvicini velocemente all’osservatore, sia che se ne allontani, la luce che emette ci arriva sempre alla medesima velocità di 300.000 km/s scarsi, fenomeno osservato casualmente da Michelson e Morley in un celebre esperimento che aveva un altro obiettivo e poi spiegato da Albert Einstein nella sua Relatività ristretta. Qualunque sia la posizione dell’osservatore il famoso effetto treno in corsa, che determina diverse velocità relative di un oggetto che fosse scagliato dal treno verso l’osservatore fisso, a seconda che il treno si avvicini o si allontani, con la luce non funziona: essa arriva sempre alla stessa velocità. Einstein ha spiegato che in questo caso è il tempo, cioè la quarta dimensione dello spazio-tempo, a rallentare o accelerare in modo che sia rispettata la condizione di assoluto che solo la velocità della luce possiede. Ora: noi possiamo anche far finta di aver capito questo “semplice” concetto alla base della relatività, nessuno ci impedisce di dirlo, e tuttavia proprio nell’esperienza di tutti i giorni il fenomeno è verificabile facilmente: basti pensare a tutte le volte che un malcapitato coniuge si trova davanti a un’opinione incrollabile e assoluta della consorte, alla quale egli oppone dei distinguo, dei punti di vista diversi, si appella ad una relatività intesa come relativismo e persino al sacrosanto diritto di avere un’opinione personale difforme: niente da fare. In questo caso è la logica che, così come il tempo, si deforma per far sì che l’assioma enunciato mantenga le sue prerogative di assioma.

Ci sarebbe ancora molto da dire, quando si parla di stelle, di galassie e di costellazioni e si va alla ricerca di una loro proiezione nella vita di tutti i giorni, ma per non appesantire troppo la serata è meglio ritornare al sommo Dante e, con lui, chiudere in bellezza questa specie di cantica con un degno poetico finale:

“E quindi ci trovammo a sponzar friselle”.

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