Può sembrare un’eresia, ma sono grato al destino che ha fatto di me un eterno pendolare, costringendomi alla quotidiana oretta di spostamento in auto, mezza all’andata e mezza al ritorno. Se la mia tasca ne soffre, per il costo in derivati del petrolio da sostenere, il mio spirito ringrazia per quell’apparato radiofonico che mi ha fatto ottima compagnia negli anni, per il quale ringrazio il buon Guglielmo. 

  Negli ultimi due o tre giorni, però, Radio Tre e la sua musica colta hanno ceduto il passo ad un supporto audio musicale inserito stabilmente nella feritoia del lettore cd, con buone probabilità di rimanerci ancora a lungo. Così, finalmente, il primo cd del mio amico William Greco, Corale, ha portato un’aria nuova nell’abitacolo della mia auto, troppo spesso in passiva risonanza sui 97.500 MHz. Lungi da tentazioni recensorie, provo a descrivere le impressioni che mi ha regalato, con parole mie e a titolo del tutto personale.

Premetto che William suonava già da far paura quando era ancora giovanissimo, come ebbi modo di verificare in qualche rara jam session nella quale mi ero avventurato con tipica incoscienza senile (esiste anche quella, non meno pericolosa della giovanile); lo dico a titolo di nota biografica tanto per mettere in chiaro che sto parlando di un talento cristallino ben noto agli addetti ai lavori, del quale però non so quanto i suoi concittadini non appartenenti a questa categoria siano consapevoli.

L’ascolto di questo suo primo lavoro conferma quello che ho sempre pensato in merito alla sua maturità: egli suonava già come un veterano, come chi non aveva alcun bisogno di dimostrare quanto fosse bravo, senza mai esagerare, senza prevaricare gli altri, con un senso della misura miracoloso per un ragazzo della sua età.

Crescendo (non di molto da allora: è ancora “schifosamente” giovane) e portando a compimento quegli studi che ne hanno fatto anche un notevole interprete del repertorio classico, ha aggiunto peso specifico alla sua musicalità innata, e il risultato è ora lì, a girare vorticosamente nel mio lettore. Dico subito che Corale è un’opera che emana una bellezza straordinaria. Parlo da appassionato di musica, non da musicologo, quindi il mio giudizio prescinde da considerazioni sul valore strettamente tecnico musicologico, sul quale versante l’unica cosa che sento di poter dire è che sicuramente William ha le potenzialità per fare ancora meglio.

 Il cd si apre con un Incontro, titolo quanto mai azzeccato per un brano d’apertura, col quale l’ascoltatore incontra il suo universo sonoro. William si presenta al meglio delle sue possibilità, tracciando il filo conduttore dell’intero lavoro, nel quale echi jarrettiani affiorano di tanto in tanto a impreziosire un pianismo col quale egli incontra i suoi punti di riferimento senza scimmiottarne nessuno. Se questo è l’approccio di William nei confronti dell’incontro con gli altri, beato chi lo incontra. Cherokee è il primo dei tre brani non composti da William, anzi dei quattro, dato che uno è firmato da un componente del trio di base del quale parlerò tra poco. Ray Noble l’autore, che confesso di non conoscere, ma la cosa importante è che in questo brano abbiamo la possibilità di ammirare un altro talento salentino che ha ormai spiccato il volo verso lidi internazionali: Raffaele Casarano, col suo fido sax alto.

 Tra le quattro principali tipologie, il sax alto è quello dotato della sonorità che mi è sempre piaciuta meno rispetto alle altre, ma quella di Raffaele è del tutto priva di quegli echi papettiani che mi hanno sempre infastidito, tanto da confondersi a volte con la sonorità del soprano, che invece amo moltissimo, al punto che mi chiedo se per caso nelle note di copertina non abbiano omesso di annotare l’utilizzo di questo sax. Se vuoi andare vai… è il brano firmato da Marco Bardoscia, contrabbassista salentino anche lui proiettato verso lidi europei.

Immagino che il titolo possa alludere all’epilogo di una storia d’amore giunta a un bivio, al fatidico essere o non essere che impone una libera scelta, compresa quella di mollare tutto. Caro Marco, apprezzo molto il fair play nell’accettare una sconfitta rispettando la libertà altrui, ma se quella frase la dici in quel modo, con quell’archetto che sfiora le intime corde dell’anima ancor più di quelle del contrabbasso, non pensi che sia, per l’appunto, un colpo basso?

Cioè, non si può invitare qualcuno ad andar via e nello stesso tempo sedurlo con quell’indicibile dolcezza, non si fa, non sta bene! È un brano che ti cattura, altro che andar via. Poi, siccome le corde che vibrano sulle basse frequenze hanno grande parte nella mia vita, qualcosa mi sento di dire anche sul suono del suo contrabbasso.

È un suono maschio, rotondo, corposo e ben definito, dall’intonazione impeccabile, come si conviene a chi ha tanto studiato, con qualche eco che mi ha fatto pensare a un certo Charlie Haden, non so se mi spiego. Mi dà l’impressione di un suono … come dire … con la barba; sì, una di quelle bellissime barbe folte e fintamente burbere, quelle che tanto vanno di moda oggi. Non ho mai visto Marco in vita mia, ma sono pronto a scommettere che porta una splendida e maschia barba, se qualcuno lo conosce può darmene conferma o smentita. A questo punto è a me che arriva il colpo basso: se tu mi proponi un O que serà come questo io vado in brodo di giuggiole, mi sciolgo, mi liquefaccio totalmente.

Chiunque mi faccia sentire questo capolavoro assoluto di Chico Buarque De Hollanda, di professione autore di capolavori, accumula un grosso credito di riconoscenza da parte mia, fosse anche Gigi D’Alessio in versione neomelodica; quindi sentire un’interpretazione come questa, nella quale pianoforte e contrabbasso duettano in quel modo, mi spinge quasi alle soglie della prenotazione di un tavolo a scopo cena.

Il contrabbasso apre esponendo il celebre tema, ma poi sembra che Marco si faccia prendere dall’emozione e inizi a dialogare col Chico, quasi volesse dirgli qualcosa del tipo “Ma ti rendi conto del capolavoro che hai scritto? Ti rendi conto ch’è di una bellezza per noi quasi insopportabile?”. Io le sento queste parole nel suo fraseggio, giuro che le sento, e William sembra pensarla come me, perché le ribadisce egli stesso con la purezza del suo tocco.

Chico ringrazia, e anche io. Corale è il brano che dà il titolo al lavoro, stilisticamente un tantino discosto dagli altri episodi grazie anche alla voce di Carla Casarano, sorella di cotanto summenzionato fratello. Voce notevole la sua, se pur utilizzata a mo’ di vocalizzo, quindi con limitato campo espressivo. Io avrei osato un po’ di più, a dire il vero, dandole più spazio.

È già successo, nella storia della musica, che una voce utilizzata in quel modo abbia dato una marcia in più ad un intero album. Se dico The Great Gig In The Sky sono sicuro che tutti capiranno cosa voglio dire, ma è ovvio che sto solo cercando di far capire il mio pensiero, non di fare paragoni fuori luogo; anche se non vedo cosa manchi a Carla per essere la Clare Torry della situazione. Once, ovvero sulla delicatezza.

Come fai ad essere così delicato William? Sei troppo giovane per esserlo in quel modo. La delicatezza appartiene a chi ha vissuto le asprezze della vita e le ha messe alle proprie spalle senza farsene condizionare; alle rugose mani che hanno troppo lavorato di una madre, che diventano velluto quando sfiorano la pelle del suo bambino. Tu cosa hai vissuto, ancora così giovane, per essere capace di tanta delicatezza?

 A questo punto giunge quanto mai opportuno l’episodio più frizzante dell’album, Verão, laddove le potenzialità ritmiche della band si esprimono al meglio e viene fuori prepotente il drumming scintillante, ma sempre controllato nelle dinamiche, del grande Massimo Manzi. L’intero cd è segnato da quella scansione ritmica così particolare, apparentemente frammentaria, discontinua, ma che “sottintende” un rigoroso rispetto del tempo, perseguito in stretta collaborazione col contrabbasso.

Dopo Tony Williams la batteria non è più la stessa, si sa, non tira più dritto come se dovesse indicare la strada agli altri strumenti, ma interagisce con loro in maniera espressiva dando colore al sound, non solo ritmo. È un modo di suonare che mi piace da impazzire, e il maestro Manzi, che spero prima o poi di conoscere di persona, dato il numero importante di amici in comune che sicuramente non vedono l’ora di presentarmelo, ne è un interprete perfetto. In questo brano in particolare, dal vago sapore sudamericano, egli dà un saggio delle sue capacità, ma il brano è anche caratterizzato da un’invenzione melodica felicissima.

Lo ritengo il migliore dell’album, senza nulla togliere agli altri. Arriva prima o poi il tempo per la meditazione, per l’introspezione e perfino per la preghiera. Fryderyk altro non è che una preghiera. Laica, in forma di musica, ma pur sempre una preghiera. Non saprei come altro definire il brano più stupefacente del disco, anche in considerazione del fatto che è dedicato a un’autentica divinità del pianoforte, Fryderyk Chopin.

 L’unicità di questo brano sta nell’atmosfera onirica, di sospensione della realtà, generata da un do ostinato che sembra circondare le altre note chiudendole in una bolla fluttuante. Sembra che William abbia voluto mettere un muro trasparente tra sé stesso e tutti gli altri, ipnotizzando l’ascoltatore così da essere libero di entrare in intimo contatto con Fryderyk per manifestargli in forma privata amore e riconoscenza e per invocarne l’ispirazione.

Il fatto che lo abbia accreditato come coautore del brano rafforza l’ipotesi onirica circa la sua origine. Non possiedo il dono dell’orecchio assoluto, quindi il tentativo di individuare quella nota ossessionante è fallito, se pur di poco, dato che ipotizzavo fosse un la. Il mio pianoforte m’ha detto che era un do, e di lui mi fido. In fondo è giusto così: il do è all’origine della scala musicale, tutto parte da lì e tutto ci ritorna. Col penultimo brano, My little suede shoes di Charlie Parker, si cerca di stemperare un po’ il grande pathos che avvolge l’intero album.

Qui possiamo ascoltare un William scanzonato, quasi boppista, ma sempre col suo senso della misura, che mai l’abbandona, così come la verve solistica non abbandona il grande Marco. Ci voleva, anche se mi resta la curiosità di capire che tipo di strumento improprio abbia usato Massimo Manzi in taluni frangenti. Inner song, l’ultimo episodio dell’opera, chiude perfettamente il cerchio agganciandosi al primo per creare quella sorta di respirazione circolare tanto cara ai sassofonisti di un certo livello. Il respiro di questo primo lavoro di William Greco è veramente ampio.

Non so se si è capito che mi è piaciuto assai. Sarei contento se queste mie parole, del tutto personali e forse anche un po’ fuori dalle righe nella loro ingenua sincerità, convincessero anche una sola persona titubante ad acquistare questo cd: c’è il rischio che William si senta incoraggiato a perseverare e che non ci metta moltissimo a regalarci un’altra perla come questa.

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