Quando il silenzio fa rumore! Dal triste all’inquietante, il silenzio riservato dalla folta platea di nobili pensatori in salsa nostrana sul primo importante atto del processo SABR, che vede la Pubblica Accusa sostenere che, in quel di Nardò, nel Salento tanto vituperato dai Briatore & Friends e così difeso dal resto del mondo (per lu mare lu sule e lu ientu), si sono consumati fatti così gravi da implicare richiesta di condanne altrettanto gravi. Il primo atto di un processo, che vede assente uno dei protagonisti, il Comune, che suo malgrado, qualora saranno provate le responsabilità e le colpe , con il suo sconfinato territorio fu il palcoscenico di tali misfatti, che al netto delle eventuali future condanne penali rimarranno tali , anche in ipotesi di assoluzioni a iosa.

Esiste una coscienza civile che non dovrebbe rimanere in silenzio ed esiste una morale, che sia se ispirata a valori laici che religiosi, avrebbe imposto di esserci in quel processo, di partecipare, di far sapere che la comunità di Nardò tutta, comunque andrà il processo, stigmatizza e condanna qualsiasi ipotesi di sfruttamento verso chiunque ed in qualunque misura.

 

L’assordante silenzio dura anni, dal gennaio 2012; quanti di noi ricorderanno le parole indimenticabili e peraltro registrate, per chi ne avesse voglia, su un blog locale, di 21 consiglieri comunali ed un Sindaco, l’ex, che, quasi, parafrasando altre realtà più aduse a tali tipologie di processi, si protesero, rozzamente, verso, un negazionismo e ad un revisionismo della peggiore specie, assumendosi l’onere anticipatorio di sentenze che sarebbero potute venire solo molto tempo più tardi. E’ vero, viviamo, purtroppo, la realtà caratterizzata dal rumore dell’odio che ispira, come naturale contrappasso, la ricerca della pace del silenzio.

Ludwig van Beethoven dette inizio alla sua magistrale opera “quinta sinfonia” con (il silenzio) la “pausa accentata” che precede il “bussare del destino”. Ma il silenzio, in questo caso, non ha il sapore della sinfonia, ma il rumore della omertà, quel rumore che portò Don Luigi Ciotti a petire la pedata di Dio verso una città che, a distanza di 30 anni, e ormai oltre, non riesce a collocare, senza indugi e quisquiglie da legulei, tra i giusti , la nostra concittadina Renata Fonte.

Nardò mi ricorda un po’ la favola delle Api di Mandeville: “Una pace profonda domina in questo regno; e ha come sua conseguenza l’abbondanza. Tutte le fabbriche che restano producono soltanto le stoffe più semplici; tuttavia esse sono tutte molto care. La natura prodiga, non essendo più costretta dall’infaticabile giardiniere, produce bensì i suoi frutti nelle sue stagioni; però non produce più né rarità, né frutti precoci.

A misura che diminuivano la vanità e il lusso, si videro gli antichi abitanti abbandonare la loro dimora. Non erano più né i mercanti né le compagnie che facevano decadere le manifatture, erano la semplicità e la moderazione di tutte le api”.

Il filosofo olandese, com’è noto, scandalizzò la società del proprio tempo affermando che i vizi sono socialmente preferibili alle virtù. Si trattava di una provocazione finalizzata a mettere a nudo agli occhi del pubblico i comportamenti ipocritamente onesti, che celavano in realtà profondi vizi.

Nella sua favola, Mandeville raccontava, appunto, dell’invidiabile organizzazione di un alveare, le cui api lavoravano per produrre una prosperità di cui godevano in pochi e in cui esistevano disparità.

Le masserelle della bilancia della giustizia dell’alveare di Mandeville erano difettose, perché essa pendeva sempre dalla parte dei ricchi e potenti. Ma era una società che tutto sommato funzionava. Adulata in pace e temuta in guerra, aveva in mano l’equilibrio di tutti gli altri alveari. Insomma, i vizi dei privati contribuivano alla felicità pubblica.

Ma un guantaio, il quale per inciso si era arricchito vendendo pelli d’agnello per pelli di capretto, si fa portatore del malcontento degli oppressi, contestando il trend immorale dell’alveare. Siffatte lamentale sono ascoltate da Giove, che decide di ammantare l’alveare di onestà e giustizia.

Tutto questo, però, pone un nuovo problema: la troppa onestà e la troppa giustizia.

I carcerieri non hanno più nessuno da incarcerare; i fabbri non possono più costruire catene; giudici e avvocati non hanno più senso, poiché tutti pagano i loro debiti; rimangono pochi medici, militari e ministri. Scompare il lusso, la vanità e le mode. Spopolandosi, l’alveare diventa vulnerabile ed è attaccato dal nemico.

Alla fine vince, ma a prezzo della vita di molte api. Di qui la conclusione di Mandeville: il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare.

Mi spiace doverlo dire ma Nardò somiglia tanto all’alveare di Mandeville.

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